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Una speranza per l'Europa

i cattolici polacchi sotto il cielo plumbeo di Varsavia

All’inizio del 1978, per una serie di circostanze i miei interessi si spostarono dall’Ungheria alla Polonia. Questo non significò l’abbandono dei rapporti che si erano instaurati con gli amici ungheresi, che infatti continuarono fino alla fine degli anni Ottanta, ma volle dire soprattutto una revisione del piano di studi e della tesi di laurea in Storia Medievale dell’Oriente Europeo.
I contatti tra CSEO e la realtà polacca erano consolidati ormai da quasi dieci anni. 

In particolare erano molto significativi i rapporti con gli intellettuali che si raccoglievano nei Club dell’Intellighencja Cattolica (KIK) di Varsavia e Cracovia, con il gruppo di storici dell’Università Cattolica di Lublino, con il movimento giovanile “Luce-Vita”, o delle “Oasi” fondato da padre Blachnicki e, ovviamente, con il cardinal Wojtyła a Cracovia e il cardinal Wyszyński, Primate di Polonia a Varsavia, entrambi legati anche da saldi vincoli di amicizia personale con don Ricci.

Andai in Polonia per la prima volta nel giugno del 1978 con il pretesto di partecipare, insieme a due compagne di università che con me collaboravano a CSEO, ad un convegno di storia sui rapporti tra Italia e Polonia nei secoli. Il viaggio, per ovvie ragioni economiche, fu in treno. Benché abituate a varcare il confine ungherese, non certo “morbido”, l’attraversamento della Cecoslovacchia, soprattutto al ritorno, fu molto duro perché i controlli furono accuratissimi: le guardie di confine, accompagnate dai cani, chiusero a chiave i vagoni, praticamente ogni scompartimento venne smontato per accertarsi che nessuno si nascondesse nelle intercapedini, e l’atteggiamento nei confronti degli occidentali rasentava la brutalità. I nostri bagagli furono attentamente esaminati, per accertarsi che non avessimo materiali proibiti, anche se i nostri visti di transito non ci consentivano più di 24 ore in territorio cecoslovacco, e quindi di fatto impedivano ogni contatto con la popolazione.

Anche l’impatto con la realtà polacca, se paragonata a quella ungherese, fu molto forte: ovunque era evidente una grande povertà economica. I negozi, eccetto quelli per stranieri dove si pagava in dollari, erano praticamente vuoti. Bastava salire su un autobus perché l’odore della vodka penetrasse nelle narici e si attaccasse ai vestiti, e la gente per strada era sfibrata dalla ricerca dei beni di prima necessità. Infine, le code davanti ai negozi dove era arrivata una fornitura qualsiasi erano interminabili e ad ogni passo si incontravano uomini e donne ubriachi fradici. 

Varsavia, rasa al suolo dai nazisti durante la guerra, era una città plumbea, dove dominava l’architettura del realismo socialista: imponenti palazzoni grigi per le istituzioni del potere si ergevano accanto a orrendi condomini–dormitorio, sempre grigi. Solo il cuore della città, la Città Vecchia con la sua splendida Piazza del Mercato, la cattedrale di san Giovanni e il Castello Reale, era stata minuziosamente ricostruita pietra su pietra basandosi sui quadri del Bellotto, che erano stati salvati dalla distruzione o dal furto portandoli al sicuro attraverso le fognature, insieme ad altre opere d’arte, a due porte, usate come barelle dagli insorti e a frammenti dei fregi delle sale del Castello, così che, a guerra finita, fosse possibile ricostruire la memoria storica ed artistica della nazione. Questo la dice lunga sul temperamento polacco.  
Conoscevamo solo a grandi linee la storia polacca del dopoguerra e non conoscevamo nessuno degli amici di don Francesco e di CSEO. Avevamo imparato a memoria alcuni nomi, indirizzi e numeri di telefono sia di Varsavia che di Cracovia. 

Durante il convegno avemmo la possibilità di incontrare i docenti dell’Istituto di Storia dell’Università Cattolica di Lublino, in particolare il professor Jerzy Kloczowski, insigne medievista, e il professor Adam Stanowski, docente di storia moderna, che poi saranno decisivi per lo sviluppo futuro dei miei rapporti con la Polonia, che stavano lavorando alla redazione della Storia del cristianesimo polacco, che CSEO avrebbe pubblicato nel 1980. Furono loro ad introdurci negli ambienti dei KIK di Varsavia e della rivista “Wiez” (Il legame) ad essi collegata, dove incontrai per la prima volta Tadeusz Mazowiecki, Jacek Kuron, Bronislaw Geremek, Tadeusz Wielowiejski. Uomini i cui nomi saranno indissolubilmente legati ai grandi cambiamenti europei del 1989, ma che allora vivevano in grandi difficoltà e ristrettezze materiali. 

Nelle piccole e fumosissime stanze del KIK di Varsavia in ulica Tamka si aveva l’impressione di entrare in un’altra Varsavia: il grigio, la frustrazione, il non senso rimanevano fuori, nonostante fossero evidenti le grandi difficoltà in cui vivevano. Si parlava con uomini veramente integri nella loro umanità, di enorme spessore culturale, capaci di un giudizio critico acuto e penetrante non solo sulla loro situazione, ma più in generale sulla situazione dell’Europa, della Chiesa, del mondo del lavoro e della cultura. Erano cattolici e non cattolici uniti non tanto dal nemico comune, ma dal desiderio di vivere da uomini liberi per sè e per la società in cui vivevano, consapevoli di avere una grande responsabilità verso i propri concittadini. Per questo pagavano un altissimo prezzo in termini di emarginazione sociale: molti erano stati in carcere negli anni dello stalinismo (mi disse il professor Stanowski: “Se vuoi un buon criterio per sapere se una persona è degna della tua fiducia chiedile se è stata in prigione”), molti vivevano in coabitazione, erano loro precluse le carriere accademiche, i loro figli avevano difficoltà enormi ad essere ammessi all’università, non potevano andare all’estero ed erano costantemente controllati nei loro movimenti. 

Il paragone con quanto avevamo visto e conosciuto in Ungheria era inevitabile. Se lì avevamo incontrato sostanzialmente uomini soli, in Polonia incontrammo quello che si poteva definire un “popolo sui generis” all’interno della nazione.

Indimenticabile fu l’incontro con il cardinal Wyszyński, che ci accolse con grande calore e ci parlò a lungo del ruolo della Chiesa, che in quanto unica istituzione che la gente giudicava autorevole, aveva il dovere di dire la verità e di difendere tutti, cattolici e non cattolici, dai soprusi del potere. Ci raccontò della grande partecipazione popolare ai pellegrinaggi a piedi a Czestochowa, cui prendevano parte ogni anno centinaia di migliaia di persone che percorrevano a piedi due o trecento chilometri per giungere il 15 agosto al santuario di Jasna Gora, che oltre che essere un gesto religioso, era anche un modo per dire il proprio “no” al conformismo che il regime cercava di imporre. Ci parlò a lungo del valore di Jasna Gora nella storia polacca: durante il periodo delle spartizioni nel XVIII secolo era l’unico luogo dove i Polacchi tornavano ad essere una nazione e dove potevano parlare polacco, lingua proibita nelle zone occupati dai Russi o dai Prussiani. Durante l’occupazione nazista, ne aveva capito il valore simbolico addirittura il governatore generale Hans Frank, che appuntò nel suo diario: “Quando tutte le luci per la Polonia si sono spente, rimane sempre ancora la Santa di Czestochowa e la Chiesa”.

Su impulso di don Ricci e di CSEO, a partire dal 1977 anche numerosi studenti italiani avevano cominciato a partecipare al pellegrinaggio da Varsavia a Czestochowa, e di questo il cardinale era particolarmente felice e grato. 

Il professor Stanowski ci portò a vedere una chiesa in ulica Zytnia completamente sventrata nel 1944, che gli abitanti consideravano un simbolo della resistenza polacca all’occupazione nazista, e per questo non volevano ricostruirla. Al suo interno si svolgevano rappresentazioni teatrali e recital di poesia messi al bando dalla censura eseguiti dai maggiori attori della scena polacca. Sfortunatamente nel 2003 il parroco, contro la volontà degli abitanti, della soprintendenza alle belle arti e degli architetti della città, ha restaurato l’edificio e lo ha intonacato sia dentro che fuori, cancellando dalle pareti i segni dei colpi di arma da fuoco e dei danni subiti durante l’insurrezione di Varsavia, eliminando in tal modo un segno di memoria che per la città aveva un grande valore.


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