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La figura del Giusto fra etica e politica

Marek Hedelman

Marek Hedelman

La memoria del male assoluto ha come scopo di tenere vivi e presenti davanti agli occhi gli effetti devastanti di una ideologia totalitaria come il nazismo, non solo, ma anche i collaterali effetti devastanti dell’indifferenza se non dell’acquiescenza rispetto all’orrore. La memoria che si concentra sull’orrore è una memoria tragica e di per sé potrebbe indurre a una paralisi emotiva, a un senso di disperazione, come in più casi è accaduto, rispetto alla natura umana o più in generale rispetto al senso dell’esistere.

Un modo per non rimanere paralizzati dalla memoria del male è quello di fare della memoria un uso diverso, positivo, pur nel contesto tragico da cui emerge. È qui che ci vengono in soccorso le azioni dei Giusti.

Paradossalmente impostare un discorso sulla memoria partendo dalle azioni dei Giusti rappresenta una sorta di tradimento delle loro intenzioni. Questo perché il denominatore comune dell’atteggiamento dei Giusti verso le proprie imprese è quello di non renderle di pubblico dominio, di velarle col pudore di chi sa, o crede, di non aver compiuto niente di eccezionale. Di molti Giusti si sono scoperti gli atti di salvataggio o di impegno civile solo dopo la loro morte, e spesso quasi per caso, perché un salvato ha chiesto loro notizie o perché è venuto fuori da qualche parte un documento che rivela quanto è successo. Questo vale sia per i Giusti fra le Nazioni della Shoah sia per i giusti dei genocidi che purtroppo sono succeduti ad essa.

Le motivazioni private che spingono i Giusti a non vantarsi di quanto hanno fatto non possono però costituire una remora rispetto alla necessità di valorizzare e proporre come esempio quanto di positivo è avvenuto nei momenti oscuri della storia, quando il male sembra avere preso il sopravvento definitivo e le vie della speranza sembrano chiuse per sempre.

In un certo senso i Giusti ci insegnano a leggere in controluce la storia. Ricordare il bene che essi hanno compiuto significa innanzitutto tenere vivi i valori per cui essi hanno rischiato la vita e spesso l’hanno perduta. Ce lo ricorda Marek Edelman in conclusione del suo libro Il ghetto di Varsavia lotta: “noi, i salvati, lasciamo a voi, lettori, il compito di non far morire la loro memoria”, e nomina gli amici del ghetto sacrificatisi per la libertà e la giustizia. I loro nomi fanno tutt’uno con i loro ideali, che sono gli ideali di una umanità degna di questo nome.

Ai combattenti del ghetto di Varsavia, che non erano solo ebrei, possiamo tranquillamente attribuire il titolo di eroi, in quanto, pur consapevoli del destino a cui andavano incontro, essi nonhanno esitato a opporsi a un nemico la cui forza sembrava fino a quel momento imbattibile.

Dal punto di vista di ciò che essi intendevano salvare insieme alle loro vite potremmo anche definirli Giusti, ma in senso non letterale. Perché letteralmente Giusti, nella definizione datane nel 1962 dalla Commissione del memoriale dello Yad Vashem a Gerusalemme, sono i gentili di tutte le nazioni che hanno salvato ebrei nel corso della Shoah. I genocidi della storia recente, però, hanno costretto ad aggiornare questa definizione ed estendere il titolo di giusto a coloro che hanno rischiato la loro vita per salvare perseguitati della pretesa parte nemica, come nel caso del genocidio del Ruanda, della ex Jugoslavia, della Cambogia o dei Gulag staliniani.

I ribelli del ghetto di Varsavia avevano fatto per necessità una scelta di rivolta collettiva, cosa che li vincolava anche a un modo di agire nei limiti del possibile organizzato sia dal punto di vista militare sia dal punto di vista politico in senso lato. I Giusti, al contrario, non hanno sempre bisogno di un’azione collettiva, anche se spesso si coordinano per compiere azioni di salvataggio, come nel caso del nostro Bartali che faceva parte di una rete di salvataggio all’interno della quale trovava supporto per trasportare nella canna della bicicletta documenti falsi destinati a salvare ebrei.

Normalmente i Giusti prima decidono di gettarsi nell’impresa e solo dopo si ingegnano sul modo di realizzarla. Si tratta di una scelta individuale, quasi sempre segreta o comunque camuffata, come nel caso di Perlasca che si finse console spagnolo o nel caso della polacca Irena Sendler che salvò migliaia di bambini ebrei facendoli uscire dal ghetto nascosti in sacchi che caricava sul camion che utilizzava per il suo lavoro di assistente sociale. In realtà il suo lavoro era una copertura che le permetteva di entrare ed uscire liberamente dal ghetto e quindi di attuare la sua opera di salvataggio. Era consapevole dei rischi che correva ma pericoli e minacce non la distolsero dal suo compito. Alla fine venne catturata e torturata ma riuscì a sopravvivere. Irena partecipò anche alla resistenza polacca, traducendo in impegno politico quello che sul piano personale sentiva come un impegno etico.

Il moto di ribellione del giusto deriva da una assunzione di responsabilità che, a sua volta, si spiega come una specie di conversione interiore. L’assunto da cui parte il giusto è di tipo etico prima ancora che politico nel senso nobile della parola. Vedremo che le conseguenze di questo modo di porsi saranno molto importanti.

L’ebrea olandese Etty Hillesum scrive nei suoi diari poco prima di essere deportata ad Auschwitz: "…Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso; se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo; se avrà superato quest'odio e l'avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non è chiedere troppo. E' l'unica soluzione possibile. È quel pezzettino d'eternità che ci portiamo dentro. Sono una persona felice e lodo questa vita, nell'anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra"

In queste parole sono condensati tutti i presupposti del modo di agire del Giusto.

Il primo, fondamentale, presupposto è dato non tanto e non solo dall’assenza di odio verso un generico nemico collettivo, ma dalla volontà di penetrare nell’indistinta massa dei nemici collettivi per dissolverla in quanto massa per individuare dentro di essa e al di là di essa esseri umani reali, in cui mi rispecchio e che, proprio in quanto esseri umani, meritano il mio amore come io lo merito da loro. Non ci si può limitare a liberarsi dall’odio genericamente inteso; ci si deve liberare dai pregiudizi che di quell’odio sono la causa. Quelle che per la cultura ufficiale sono categorie antropologiche o giuridiche o addirittura scientifiche, per i giusti sono vuoti stereotipi. Categorie quali razza o classe sociale o altro ancora, sono alla base di ideologie che cancellano l’individuo e la sua concretezza. Esse sono nient’altro che lo strumento attraverso il quale si inducono gruppi sociali o interi popoli ad affermare la propria identità in modo egoistico e conflittuale.

Ed ecco allora un altro presupposto dell’agire dei Giusti: la capacità di accogliere, di prendersi cura, di mettersi al posto dell’altro. Questa capacità di immedesimarsi nel proprio simile non è un semplice atto di altruismo. Direi che se la Hillesum ha visto con grande chiarezza e profondità ciò che si cela dietro la capacità di immedesimarsi negli altri, tutti i giusti condividono in modo sottaciuto la stessa prospettiva, che consiste nella convinzione che salvare l’umanità nell’altro significa salvare l’umanità in se stessi. Dietro l’atto generoso sono presenti motivazioni che comportano una fondamentale risposta a ciò che si vuol essere e al senso che si vuole dare alla propria vita. Il giusto si riconosce semplicemente essere umano fra gli esseri umani e non si erge a giudice di nessuno. Non agisce contro ma a favore di qualcuno. Il giusto include e accoglie e non distrugge mai.

Per spezzare la catena perversa del male, per rispondere costruttivamente alla logica del colpo su colpo, non c’è, secondo i giusti, altra strada che valorizzare il bene che si può trovare anche nella più disperante delle situazioni.

Dice la Hillesum: “…se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero. Questo non significa essere indulgenti nei confronti di determinate tendenze, si deve ben prendere posizione, sdegnarsi per certe cose in certi momenti, provare a capire, ma quell’odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia. É una malattia dell’anima”.

Non c’è Giusto che non abbia capito che agire giustamente aiuta non solo coloro che da lui sono stati salvati, ma soprattutto se stessi, la propria autostima, il potersi guardare allo specchio senza disgusto, che l’azione giusta salvaguarda l’integrità della propria coscienza, che poi vuol dire del proprio senso di essere umano. Il giusto non vuole soccombere allo stesso processo di disumanizzazione di cui è vittima il persecutore. Per lui questo significherebbe “vendere l’anima”. Agire secondo coscienza e solo secondo coscienza è l’imperativo categorico dei giusti. Questo non vuol dire che i Giusti si sentono degli eroi. Sanno che agire responsabilmente può comportare il rischio della vita, cercano di proteggersi, certo, ma non esitano ad anteporre alla loro vita il bene che rende la vita stessa degna di essere vissuta. Il disinteresse è la cifra del loro comportamento. Disinteresse e autonomia di pensiero. I Giusti non si danno compiti universali, non ritengono di dover salvare il mondo intero, a loro basta salvare un perseguitato che ha bisogno del suo aiuto, un individuo in carne ed ossa. I Giusti non hanno teorie da dimostrare o ideologie da realizzare, e non ritengono neppure di dover insegnare qualcosa a chicchessia.

Eppure, in un contesto politico sociale in profonda crisi come il nostro, qualcosa i Giusti avrebbero da insegnarci, o meglio, da proporci. Ma, quel più conta, potrebbero ispirare comportamenti ed essere da esempio alle giovani generazioni, perché le loro vite sono la dimostrazione che nei momenti drammatici della storia dell’umanità si può sempre agire responsabilmente, si può decidere da quale parte stare senza farsi condizionare da convenienze o calcoli egoistici. Si può quindi affermare che l’azione dei giusti ha una duplice valenza etica e politica allo stesso tempo, se per politica intendiamo l’arte di indirizzare le relazioni fra gli esseri umani verso una convivenza soddisfacente per tutti.

Le parole chiave che hanno caratterizzato il clima genocidario erano: odio indifferenziato, disinteresse per il destino dei perseguitati, nazionalismo esasperato, chiusura identitaria. Se ci riflettiamo bene, queste stesse parole chiave possono essere usate per definire il contesto sociopolitico attuale non solo in Europa, sia pure in un mutato contesto internazionale. Odio e indifferenza si tengono la mano reciprocamente, costituiscono il brodo di coltura del fanatismo e del conformismo, che a ben guardare, sono due facce della stessa medaglia. Contrastare questi fenomeni è un’impresa titanica, al limite dell’impossibile. Oggi come oggi, ma forse era così anche nel passato per coloro che vi vivevano, in apparenza non c’è un male a cui opporsi, almeno qui in Europa, non ci sono perseguitati e non ci sono vittime di persecuzioni. I genocidi sembrano eventi definitivamente consegnati alla storia. Però periodicamente abbiamo dei bruschi risvegli e ci accorgiamo che i meccanismi dell’odio etnico si risvegliano e producono tragedie e che quel “mai più” dopo Auschwitz non è stato che un grido inascoltato. Sembrano profetiche le parole della Hillesum: se rispondiamo all’odio con l’odio il mondo non uscirà di un solo passo nella melma.

Ben lungi dallo spezzarsi la catena dei rivendicazionismi e delle vendette fra stati etnie e culture si è ulteriormente rafforzata e le giovani generazioni nel mondo si barcamenano fra l’indifferenza l’acquiescenza e il fanatismo. Sembrerà poca cosa, ma in uno scenario così sconfortante l’esempio dei giusti può indicare un cammino, lungo e difficile, ma che ha scarse alternative, verso un nuovo modo di guardare al mondo e a se stessi.
Mettere al centro dell’azione educativa i principi su cui si è basata l’azione dei giusti significa ridare pienezza di significato a parole come: responsabilità, dignità, generosità, accoglienza, apertura, disinteresse, autostima, libertà. Questo riassume il termine “giusto”, a partire dalla sua antica accezione ebraica.

È a questo che serve la memoria collettiva, per indicarci un senso a partire da un’origine. Paradossalmente più che nel passato la memoria trova il suo compimento e il suo scopo nel futuro, se no funge esclusivamente da “storiaantiquaria”, per usare l’espressione di Nietzsche, cioè di un sapere relegato nel confini di un sapere erudito e in ultima istanza sterile.
I giusti ci insegnano, al di là della loro volontà di insegnarci alcunché, che il futuro si disegna nel presente, che quello che si decide di fare (o non fare) oggi determina ciò che saremo domani. Ciò è difficile da comprendere in una società che tende a banalizzare e omologare qualsiasi decisione, ma non per questo la scuola deve rinunciare a insistere sull’importanza della responsabilità individuale e del coraggio delle scelte che obbediscono solo ai dettami della coscienza. Questo insegnamento ci viene offerto inconsapevolmente dai Giusti, e noi dobbiamo saperlo cogliere trasferendolo alle nuove generazioni attraverso la narrazione che genera empatia. Il racconto dell’azione dei giusti fa cadere qualunque schermo. “Vedere” il giusto in azione significa di per sé capirne le motivazioni, entrare nel suo mondo interiore, condividere le sue emozioni. Senza la necessità della mediazione di concetti astratti – freddi direbbe uno psicologo – i giovani, attraverso l’esempio dei giusti, fanno un’esperienza coinvolgente dalla quale usciranno in qualche modo cambiati.
Lasciamo l’ultima parola a Etty Hillesum.

Vorrei poter raggiungere le paure di quell’uomo e scoprirne la causa, vorrei ricacciarlo nei suoi territori interiori, Klaas, è l’unica cosa che possiamo fare di questi tempi.
Allora Klaas ha fatto un gesto stanco e scoraggiato e ha detto: Ma quel che vuoi tu richiede tanto tempo, e ce l’abbiamo forse? Ho risposto: Ma a quel che vuoi tu si lavora da duemila anni della nostra èra cristiana, senza contare le molte migliaia di anni in cui esisteva già un’umanità – e che cosa pensi del risultato, se la domanda è lecita? E con la solita passione, anche se cominciavo a trovarmi noiosa perché finisco sempre per ripetere le stesse cose, ho detto: E' proprio l’unica possibilità che abbiamo, Klaas, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancora più inospitale
”.

Salvatore Pennisi

Salvatore Pennisi, Commissione educazione Gariwo

19 febbraio 2015

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Agorà degli insegnanti a cura di E. Bellotti e A. M. Samuelli

L’infanzia e l’adolescenza sono periodi cruciali per l’assorbimento di idee e valori, che formano il modo di pensare dell’individuo. Per questo vogliamo dedicare un nuovo spazio al mondo della scuola, di aperta collaborazione con i docenti per comunicare con i giovani.

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