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A cento anni dalla Grande Guerra

interpretazioni storiche, tra passato e attualità

Martina Landi e Carolina Figini esaminano le parole chiave al centro del dibattito - violenza, genocidio, negazionismo, responsabilità degli Stati, prevenzione - sottolineando le difficoltà interpretative e la strumentalità che ancora oggi segnano la narrazione della prima guerra mondiale.

Quando si interpreta il passato per giustificare il presente
La prima guerra mondiale vista dai Balcani

di Martina Landi

Dopo cento anni, la storia della prima guerra mondiale divide i Balcani. Alla base di queste diverse posizioni, pesano le ferite del conflitto degli anni ’90, che ancora creano barriere etniche e culturali tra le popolazioni. Ciò che più divide i Paesi dell’area balcanica è la figura di Gavrilo Princip, il giovane serbo che il 28 giugno 1914 uccise l’arciduca Francesco Ferdinando, in quello che viene considerato il casus belli da cui si scatenò il conflitto mondiale - generato in realtà da motivazioni ben più profonde.

L’immagine di Princip cambia a seconda dello Stato - o dell’enclave - in cui ci si trova. Sono innanzitutto le scuole, prima ancora che i gruppi etnici di riferimento, a fornire una determinata visione dell’attentato di Sarajevo, in cui il giovane viene descritto di volta in volta come un terrorista o come un ribelle dalla giusta causa.

Quando i Paesi balcanici erano ancora parte della ex Jugoslavia, i libri scolastici insegnavano un’unica versione della storia. Oggi invece Serbia, Croazia e Bosnia Erzegovina forniscono agli studenti interpretazioni diverse. A Belgrado, ad esempio, si insegnano le gesta di un giovane Princip - proclamato anche eroe nazionale dalla Chiesa ortodossa serba - che si batteva per una giusta causa, la lotta contro le politiche dell’Austra-Ungheria nei confronti di serbi e slavi del sud. Causa della guerra mondiale, di conseguenza, per i libri di testo di Belgrado è stata la lotta tra le grandi potenze per il controllo economico e il dominio dell’Europa, nonché il risultato delle aspirazioni imperiali dell’impero austroungarico.

La storia cambia se da Belgrado ci si sposta a Zagabria. In Croazia gli studenti imparano la storia del terrorista Princip appoggiato dalla Serbia, responsabile del conflitto mondiale a causa della sua volontà di espansione in aree sotto il controllo ottomano e della rivendicazione di autonomia dall’impero austroungarico. In questa mira territoriale viene identificato il progetto della “Grande Serbia”, che condurrà agli scontri degli anni ’90 avvenuti con il disgregamento della ex Jugoslavia.

Ancora più complessa è la situazione in Bosnia Erzegovina, divisa in tre enclave - serba, croata e musulmana - non solo dal punto di vista politico, come vogliono gli accordi di Dayton del 1995, ma anche da quello culturale. Bosgnacchi e croati seguono la linea didattica della Croazia, indicando Princip come un assassino sostenuto da Belgrado attraverso “organizzazioni segrete”, e la Giovane Bosnia - il gruppo di cui Princip era parte - come un’organizzazione terrorista. Diverso è il caso degli studenti della Repubblica Srpska, l’entità serba, che sui loro testi scolastici vedono descritta la Giovane Bosnia come una semplice organizzazione, mentre l’Austria è accusata di aver utilizzato come pretesto l’assassinio di Francesco Ferdinando per “accusare la Serbia” e dichiararle guerra.

Il caso bosniaco è forse quello più particolare e complicato, risultato di una riforma dell’istruzione che ha seguito il conflitto degli anni ’90. In questo periodo infatti le tre zone del Paese - Repubblica Srpska, Federazione di Bosnia Erzegovina e territori croati - svilupparono nuovi piani di insegnamento e avviarono una revisione dei libri di testo, nel quadro di un più generale spostamento a una visione nazionale e nazionalistica della storia. Fu così che, in un nuovo assetto politico completamente federalizzato - anche nel sistema educativo - si verificò una sorta di frammentazione della narrativa storica. I territori della Repubblica Srpska si allinearono ai programmi scolastici di Belgrado, le zone dell’Erzegovina si ispirarono ai piani croati, mentre il governo di Sarajevo iniziò a produrre i propri libri di testo. In questo percorso i diversi autori si concentrarono sulla storia culturale e sociale dei diversi gruppi etnici del Paese, per reclamare il tempo, il luogo e le “conquiste” storiche ad essi collegate - in modo da giustificare acquisizioni o rivendicazioni territoriali del relativo gruppo di riferimento.

Tutto questo è stato possibile in un Paese, la Bosnia Erzegovina, in cui la popolazione si riconosce primariamente in base alla propria appartenenza etnica (dato che è risultato evidente durante il censimento della popolazione del 2013), e in cui neanche le cerimonie della memoria sono ufficialmente condivise. Cerimonie che, anche per quanto riguarda la celebrazione del centenario della prima guerra mondiale, non hanno mancato di frammentare i diversi Paesi. Se infatti la Sarajevo bosgnacca ha provato a ricomporre narrazioni opposte, invitando la Filarmonica di Vienna ed esponendo, sui lati dell’ex Museo della Giovane Bosnia, le immagini di Gavrilo Princip e di Francesco Ferdinando, i serbi di Bosnia hanno tenuto manifestazioni separate a Visegrad, mentre una statua di Princip è stata inaugurata nell’area orientale di Sarajevo (a forte presenza serba).

Oggi il passato viene rivisto e regolato per adattarsi ai discorsi portati avanti dalle elites al potere. La stessa Grande Serbia, a cui, secondo la narrativa di Belgrado, Princip pensava al momento dell’assassinio dell’arciduca, viene vista come presagio di quanto accadde poi negli anni ’90. Ratko Mladic, oggi a processo al Tribunale penale per la ex Jugoslavia, durante l’udienza preliminare del 2012 ha chiesto al giudice di poter pronunciare qualche parola sul “cavaliere” Gavrilo Princip. Nonostante il rifiuto, Mladic ha dichiarato di aver seguito le orme del giovane assassino, poiché nel 1914 così come 80 anni dopo la Serbia si trovava schiacciata e oppressa. Con queste parole, il generale privava Princip della sua individualità e lo allontanava dal contesto storico, identificando nel giovane un simbolico “padre della patria” della Repubblica Srpska.

La divisione politica e culturale che ancora persiste nei Balcani è quindi applicata al passato, che viene letto per giustificare le divisioni del presente. Purtroppo la strada per una visione comune e condivisa della storia - remota e più recente - è ancora in salita.


L’epoca dei genocidi inizia nel 1914
Il tasso di violenza aumenta a dismisura e non si fermerà più. Per questo dobbiamo parlare di prevenzione

di Carolina Figini

La foto di una crocerossina e quella di un uomo in trincea. Il ritratto di un poeta, Carlo Emilio Gadda, poi quello di Mussolini, all'epoca maestro elementare.  “La volpe del deserto” Erwin Rommel all’inizio della sua carriera militare, infine una foto indecifrabile. Una faccia quasi senza lineamenti, carne e sangue al posto del mento. L'effetto di un lancio d'obice su un volto umano. Queste sono alcune delle immagini esposte al Museo di Caporetto, che ho visitato nel 2008. L'allestimento prevedeva anche una sala con le frasi dei generali di tutte le nazionalità che più si erano distinti nell'inglorioso compito di incitare all'odio e alla violenza. Pare che l'autore dell'espressione “materiale umano” fosse un comandante italiano, che doveva "fare la guerra" con dei poveri contadini. Era il primo conflitto mondiale. Una guerra in cui furono inaugurate le armi chimiche (l'iprite dal nome della sventurata località di Ypres dove fu impiegata la prima volta, il cosiddetto gas mostarda, forse anche il gas nervino). Una guerra di tipo nuovo, in cui si combatteva nelle trincee, morendo a milioni per infezioni banali e assideramento e sviluppando qualcosa di simile a quelle che modernamente si chiamano “sindromi da stress post traumatico” quando colpiscono i soldati occidentali in Iraq o Afghanistan. 

La prima guerra mondiale, iniziata con il macabro assassinio dell'Arciduca Ferdinando da parte di Gavrilo Princip il 28 giugno 1914, fu la guerra in cui la violenza si amplificò a dismisura e in cui l'Umanità assistette al primo genocidio del Novecento, il Metz Yeghern o “Grande Male” compiuto dal governo di Kemal e Talaat Pascià contro gli armeni. 

Secondo lo storico Francesco Costantini, il numero dei morti tra il 1914 e il 1918 – 15 milioni - si può paragonare a quello dei ventitré anni di guerre napoleoniche intercorsi tra il 1793 e il 1815. Il bilancio delle vittime sale enormemente e si tratta quasi sempre di persone morte per “cause violente”, ferme restando le cifre altissime dei malati. Le granate potevano polverizzare un corpo umano, le schegge più grandi potevano tranciarlo in due. In più vennero devastate tutte le aree limitrofe ai campi di battaglia per chilometri e chilometri e, cosa ancora più inquietante, si intensificò l’odio. Un milione e mezzo di armeni furono deportati, torturati, uccisi, lasciati morire di fame e di sfinimento nel deserto siriano, con brutalità inaudita, che non risparmiò neppure i beni spirituali, culturali e religiosi. Occupazione, razzismo, lavoro forzato, rapimenti dei fanciulli e delle bambine per islamizzarli e inserire le femmine negli harem, rientrano nei maltrattamenti che subirono gli armeni. 

Il livello di violenza di quell'inizio di secolo fu tale da mettere in discussione anche l’integrità psichica di chi aveva assistito a tutto ciò. Ne discese un’ulteriore violenza, quella dell’oblio. Molti non ebbero il coraggio di raccontare il trauma vissuto in trincea, così come poi sarebbe accaduto agli scampati dalla Shoah e ai sopravvissuti della seconda guerra mondiale.

Marcello Flores, Professore di Storia Contemporanea e Diritti Umani all’Università di Siena, ha dedicato molte analisi alla prima guerra mondiale, agli errori commessi da Francia e Gran Bretagna nei successivi trattati, che hanno sancito ingiustizie e incongruità foriere delle successive tragedie. Ha analizzato lo sforzo di Raphael Lemkin per per far accettare all'Assemblea delle Nazioni Unite una definizione di genocidio che portasse a una Convenzione - poi approvata nel 1948 - "per la prevenzione e punizione" di tale crimine. In questo modo veniva finalmente superata l'ipocrisia di termini come “violazione delle leggi e usanze di guerra”, utilizzati per descrivere la tragedia armena. Gli studi di Flores proseguono nell'analisi del fenomeno del negazionismo, con particolare attenzione all'atteggiamento degli Stati - il riferimento storico è ancora una volta il genocidio armeno - di mistificazione della realtà in funzione di autoassoluzione. 

Un altro fenomeno analizzato dagli storici in relazione all'uso della violenza dal Novecento ai giorni nostri è l'abuso del termine "genocidio", spesso dettato dall'ansia di denunciare un sopruso. Lo stesso Flores ha spesso ricordato la difficoltà di affrontare il tema in modo lucido e obiettivo a causa dell’aspetto emotivamente coinvolgente di questo termine. 

Rimane in ogni caso una priorità nel mondo post-Prima Guerra Mondiale l’impegno a prevenire i genocidi, anche se ci costringe a confrontarci con difficoltà interpretative e divergenze di giudizio. 

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo e Carolina Figini

22 luglio 2014

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Appunti internazionali a cura di Martina Landi

Questi “Appunti internazionali” indagano sulle origini storiche e sociali delle guerre dimenticate o trascurate dai media e sui meccanismi istituiti dalla giustizia internazionale per punire i colpevoli di gravi crimini contro l’umanità.

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