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Kobane, i curdi e la Turchia

parlano Antonio Ferrari e Valeria Talbot

La città siriana di Kobane, al confine con la Turchia, è da oltre un mese sotto assedio da parte dei miliziani dello Stato Islamico (IS). Ma il suo isolamento è stato rotto dopo che Ankara ha deciso di concedere ai combattenti pershmerga curdi del nord dell’Iraq il transito attraverso il suo territorio per andare in difesa della città. Una mossa a sorpresa nella politica turca, da sempre ostile alle iniziative dei curdi.
Abbiamo chiesto ad Antonio Ferrari, editorialista del Corriere della Sera, e Valeria Talbot, Senior Research Fellow ISPI, di raccontarci gli ultimi sviluppi del coinvolgimento turco nel conflitto.

"Ankara teme la rinascita dell'irredentismo curdo"
Intervista ad Antonio Ferrari

di Martina Landi

Qualche giorno fa Staffan De Mistura ha dichiarato che Kobane rischiava di diventare la nuova Srebrenica, ora il Ministro degli Esteri turco ha concesso il passaggio dei peshmerga verso la città. Può raccontarci meglio cosa succede oggi a Kobane?

È una bella storia con un retrogusto amaro. La Turchia ha solo apparentemente cambiato strada: ha infatti deciso di consentire i passaggi verso Kobane ai curdo-iracheni, ma non ai curdo-turchi. Certo, questo costituisce un fatto positivo, perché ora i curdi che combattono a Kobane non sono più soli, ma questo parziale ripensamento riguarda solo la componente irachena della comunità curda, che ha raggiunto una certa forma di autonomia e quasi di indipendenza e con cui la Turchia mantiene buoni rapporti. Si prefigura così una dimensione ambigua, nella quale i curdi, la più importante minoranza di cinque Paesi - Siria, Iraq, Iran, Turchia e Armenia - vengono divisi in due categorie: quelli di serie A, con cui proseguire le relazioni, e quelli di serie B, troppo amici dei curdo-turchi e quindi considerati un potenziale elemento destabilizzante.

Il tutto comunque si è svolto nell’immobilismo di Ankara, e più volte è stato invocato il paragone con un altro episodio storico, l’attendismo di Stalin di fronte alla rivolta del ghetto di Varsavia…

Si tratta di due casi di ambiguità, ma non bisogna dimenticare che ogni evento deve essere temporalmente collocato e analizzato in un quadro, in una cornice. L’episodio del ghetto di Varsavia ha rappresentato una delle pagine più eroiche ma anche più vergognose della storia d’Europa. Certo, non sono mancate le ambiguità, dettate però forse da considerazioni di realpolitik, che nei rapporti internazionali hanno sempre un peso. In quel caso si era di fronte al contesto di una guerra mondiale, mentre oggi a Kobane si tratta di una situazione diversa, regionale, ma non mancano dei punti comuni. La Turchia, che fa parte della NATO, prima ha accettato di essere un alleato fedele e di combattere contro quel terrorismo considerato un pericolo per Europa e Stati Uniti, e poi ha fatto da spettatore nella battaglia di Kobane. Se infatti l’Isis è un pericolo anche per la stessa Turchia, ciò che Ankara teme ancora di più è un’alleanza tra i curdo-siriani e i curdo-turchi, che potrebbe portare alla rinascita dell’irredentismo curdo e al ricrearsi delle condizioni per quell’unione che doveva essere il Kurdistan - promessa effettuata nel 1920, alla fine della Prima guerra mondiale, e poi, con il mutare della geometria delle alleanze tra le grandi potenze, disattesa nel 1923.
Oggi la Turchia ha due potenziali nemici: da una parte il presidente siriano Bashar al Assad, dall’altra i curdi siriani e turchi. E questo dimostra quanto sia beffarda l’immagine del confine turco con i carri armati fermi alle porte di Kobane.
Si può inoltre citare un altro episodio a dir poco ambiguo, ovvero il rapimento da parte dell’Isis di 49 persone al consolato turco di Mosul, in Iraq. Ankara ha iniziato una serie di trattative con l’Isis - passo molto avventato, che significava di fatto il riconoscimento di uno Stato che non esiste - e ha ottenuto il rilascio degli ostaggi in cambio dei 180 prigionieri, appartenenti all’Isis, feriti in combattimento e accolti negli ospedali turchi per essere curati. Ciò che fa riflettere non è tanto l’operato dei medici turchi, quanto piuttosto l’atteggiamento del governo, che ha dimostrato di usare due pesi e due misure. Se infatti la Turchia ha messo sotto inchiesta i medici che hanno curato i giovani di Gezi Park, si è ben guardata di dire una parola su quelli che hanno aiutato i feriti dell’Isis.

Quanto peserà l’atteggiamento di Erdogan a Kobane sui rapporti tra Turchia e Unione Europea? Crede che si possa verificare un riposizionamento verso Est di Ankara?

Credo che l’opzione europea sia, se non tramontata, ormai indirizzata verso l’anticamera dell’estinzione. La Turchia non guarda più all’Europa, rivolgendosi soprattuto a est e a sud. Siamo tuttavia in presenza di una situazione piuttosto pesante: se inizialmente infatti la Turchia predicava “zero problemi con tutti i vicini”, oggi paradossalmente ha problemi con tutti i suoi vicini, e questo deve far pensare. Guardare ad est può essere funzionale dal punto di vista economico e d’immagine. Erdogan vuole piacere al mondo, e ha un importante obiettivo: restare alla presidenza fino al 2023, centesimo anniversario della Repubblica turca. Questo la dice lunga sulle ambizioni, talvolta molto rischiose, dell’uomo che si paragona a Mustafa Kemal Ataurk e che, se nei primi anni di governo ha garantito un’eccezionale stabilità al Paese, adesso a causa della sua politica e del suo atteggiamento arrogante sembra aver perso di vista il reale interesse dello Stato.

In questi giorni aerei militari turchi hanno colpito obiettivi del PKK nel sud del Paese, mentre ufficialmente è ancora in corso il processo di pace tra le due parti. Cosa dobbiamo aspettarci su questo fronte?

Per il momento direi niente di buono. Ocalan, il fondatore del PKK che oggi si trova in carcere nell’isola di Imrali, nel mar di Marmora, aveva accettato di trattare e aveva raggiunto di fatto un accordo con il governo dell’allora primo ministro, oggi presidente, Erdogan. Questo passo somiglia a quello che era stato fatto, in condizioni temporali diverse, ai tempi di Turgut Ozal - che aveva parziali origini curde. Ozal, primo presidente turco dopo il colpo di stato del generale Evren, aveva creato una linea di dialogo per cercare di raggiungere una tregua tra le due parti.
Erdogan, prima delle elezioni presidenziali, aveva promesso maggiore autonomia e diritti politici alla minoranza curdo-turca, e questo aveva portato Ocalan a proclamare una nuova tregua, che sembrava reggere. In seguito ai fatti di Kobane, tuttavia, il leader curdo ha dichiarato che qualora la città fosse caduta, l’accordo non sarebbe stato più valido. La tregua però non ha neanche dovuto attendere il crollo di Kobane - che anzi sta resistendo - ma si è disintegrata nel momento in cui gli aerei turchi sono andati a colpire postazioni del PKK all’interno della stessa Turchia.
Su questa tematica Erdogan gode del sostegno di una parte consistente del Paese - non solo la sua maggioranza, ma anche le forze dell’opposizione, che non amano i curdi del PKK in armi - ma bisogna ricordare che, quando si intraprende un percorso e si cercano delle vie d’uscita per una questione così delicata, non si possono rinnegare totalmente gli impegni presi, a maggior ragione se questo rischia di riaccendere quello che potrebbe essere un ulteriore focolaio di tensione nella regione.

Alla luce di tutto questo, come sta vivendo la società civile turca il rapporto con la componente curda?

I curdi sono una componente importante del Paese, circa il 13% di una popolazione che ormai è vicina agli 80 milioni. È chiaro che non tutti appartengono al PKK. La maggioranza della comunità curda, che vive nelle grandi città, è perfettamente integrata, mentre la parte che abita il sud est del Paese è assai più vicina alle pulsioni autonomiste che tanto la Turchia teme. La popolazione turca vive quindi nella paura e nell’incubo del PKK, ma ha sviluppato anche un atteggiamento critico nei confronti di un governo che sta dimostrando tutta la sua ambiguità.



Le priorità di Erdogan nel conflitto
Intervista a Valeria Talbot

di Viviana Vestrucci

La Turchia ha esitato a lungo prima di concedere ai peshmerga curdi nord-iracheni il transito nel suo territorio per impedire la resa di Kobane. Perché per Erdogan abbattere il regime di Assad in Siria sembra più importante che bloccare l'IS?

La fine del regime di Bashar al-Assad è diventata una priorità della politica estera mediorientale della Turchia dall’estate del 2011, quando il governo guidato da Recep Tayyip Erdogan, dopo avere cercato senza successo di esercitare pressioni sull’allora alleato siriano perché avviasse un processo di riforme interne, decise dischierarsi con il fronte anti-Assad. Con quest’obiettivo negli ultimi tre anni la Turchia ha fornito sostegno logistico e finanziario al composito fronte delle opposizioni siriane, e ha adottato una politica “morbida” di controllo delle frontiere, consentendo in tal modo il passaggio di foreign fighters in territorio siriano. Il conflitto nella vicina Siria, se da un lato ha segnato il tramonto della politica turca di “zero problemi con i vicini”, dall’altra ha coinvolto sempre più la Turchia nel pantano mediorientale. Al punto in cui si trova il governo di Ankara non può arretrare le sue posizioni. Una sorta di “riabilitazione” internazionale di Assad nella lotta contro lo Stato islamico, divenuto obiettivo prioritario degli Stati Uniti in Medio Oriente, non è una prospettiva gradita ad Ankara, che ha invece investito molto nel suo rovesciamento.

Un rafforzamento dei curdi, in caso di vittoria sull’IS, rappresenterebbe un reale rischio per l’integrità della nazione turca?

Il fattore curdo ha grande rilievo negli orientamenti del governo turco per il suo impatto tanto sul piano interno quanto a livello regionale. Erdogan è il primo leader turco a riconoscere che in Turchia esiste una questione curda che necessita una soluzione. In quest’ottica ha avviato un processo di pace che coinvolge, oltre ai partiti curdi, il leader in prigione del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan, NdR.) Abdhullah Ocalan nella convinzione che una composizione interna avrebbe ricadute positive anche a livello regionale. La Turchia non vede di buon occhio la formazione al suo confine meridionale di regioni curde autonome in Siria, che potrebbero alimentare mire autonomiste nella sua minoranza curda (circa 15 milioni) e mettere in discussione il processo di pace interno. D’altro canto c’è anche il timore che il PKK, dopo i successi militari nel contenere l’avanzata dell’IS in Iraq, possa ricevere una riabilitazione internazionale – il PKK è incluso da Turchia, Stati Uniti ed Europa tra le organizzazioni terroristiche – rafforzare la sua posizione negoziale nei confronti di Ankara.

La linea seguita nella vicenda di Kobane quali conseguenze può avere rispetto alla posizione della Turchia nella Nato e ai suoi rapporti con l’Unione europea e gli Stati Uniti?

Come si è detto, nell’attuale contesto mediorientale gli interessi della Turchia non coincidono con quelli dell’alleato americano, e più in generale della Nato. Le divergenze sono ampiamente emerse proprio in occasione dell’assedio di Kobane. Nell’ultimo decennio la Turchia non ha mancato di sorprendere gli alleati occidentali con la sua politica autonoma. Il caso più emblematico è stato il diniego di utilizzare il proprio territorio nell’invasione anglo-americana dell’Iraq nel 2003. D’altra parte però, sebbene al momento non partecipi ad azioni militari, Ankara è impegnata in prima linea nel fornire supporto logistico e assistenza umanitaria alle centinaia di migliaia di profughi siriani in fuga dalle città cadute nelle mani dell’Isis.

Le proteste per il ritardo nell’intervento contro l’IS possono diventare un movimento di massa e creare problemi al governo di Ankara (vedi Gezi Park)?

Sebbene ci siano state importanti manifestazioni, che hanno provocato decine di vittime nelle scorse settimane, al momento non sembra che queste possano sfociare in manifestazioni di massa. Tuttavia, il governo ha presentato nei giorni scorsi una proposta di legge per ampliare i poteri della polizia a dimostrazione che l’esecutivo si sta preparando a ogni eventualità.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo e Viviana Vestrucci, giornalista

23 ottobre 2014

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