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Tunisia: ci sarà una nuova rivoluzione?

Le prime sfide del "dopo" Primavera Araba

Sono passati poco più di cinque anni dal 14 gennaio 2011, il giorno in cui la Tunisia iniziò il suo percorso verso la democrazia. Oggi, l’atmosfera è molto simile a quel periodo. Il popolo tunisino è sceso di nuovo in piazza per protestare contro una situazione ormai insostenibile: un tasso di disoccupazione elevato, ampie disparità interne e sacche di povertà nelle zone orientali e meridionali del Paese. Dopo il suicidio di un giovane laureato a Kassrine, al centro della Tunisia, la rabbia dei giovani è esplosa, in alcuni casi anche in maniera violenta. Le proteste si sono diffuse in tutto il Paese e un poliziotto è stato ucciso.

Ci sarà una nuova rivoluzione? Questo è l’interrogativo tra gli studiosi, ma anche tra gli stessi cittadini tunisini, stanchi di una situazione socio-economica difficile.

Vogliono un riscatto, una speranza, un futuro migliore e soprattutto vogliono risposte dal proprio governo.

Durante le prime elezioni libere per comporre l’Assemblea Costituente nell’ottobre 2011, l’entusiasmo era palpabile. Uomini e donne mostravano fiere le loro dita macchiate d’inchiostro. Dopo cinquant’anni di soprusi e violenze, finalmente potevano esprimere quello che pensavano e votare chi preferivano. Si formò un governo composto dal partito d’ispirazione islamica al-Nahda, che ottenne la maggioranza dei voti e dalle forze secolari. La nuova Costituzione vide la luce solo dopo quattro anni, superando duri scontri politici e gravi crisi, culminate con l’uccisione di due esponenti dell’opposizione, all’inizio del 2013. L’impasse politica di quei mesi fu superata grazie alle associazioni e alle organizzazioni della società civile che agirono da mediatori, aiutando le forze politiche a trovare un compromesso. Il loro ruolo è stato riconosciuto da molti esperti come l’elemento eccezionale che ha contribuito alla democratizzazione del Paese. Va in questa direzione il Nobel per la pace 2015 dato al cosiddetto quartetto, in rappresentanza della società civile tunisina: il principale sindacato UGTT, l’associazione degli industriali Utica, l’ordine degli avvocati e la lega tunisina dei diritti dell’uomo.

La Costituzione, adottata nel gennaio 2014, è stata celebrata da molti come l’apice della transizione politica. Essa ha saputo coniugare le diverse esigenze degli schieramenti e rispettare i principi cardine della democrazia - dalle libertà fondamentali al riconoscimento dell’uguaglianza tra i sessi. Nonostante questi progressi, i risultati delle prime elezioni parlamentari nell’ottobre 2014 hanno ribaltato la situazione precedente, concedendo la maggioranza alla formazione secolare, Nidaa tounes, e mettendo in secondo piano al-Nahda. Non bisogna però leggere questi risultati in base alla dicotomia laico-islamico, ma piuttosto come un giudizio negativo dei cittadini nei confronti dell’operato del governo precedente.

Negli ultimi mesi, sono continue le tensioni politiche e sociali dovute a un malcontento diffuso e una disaffezione dalla politica. La stabilità del Paese è precaria, non solo per le difficoltà interne del partito maggioritario, ma a causa dell’incapacità del governo di affrontare problemi fondamentali come la difficile situazione economica. Il Pil del Paese è cresciuto lentamente negli ultimi cinque anni e il settore-chiave dell’economia tunisina - il turismo - ha subito una battuta d’arresto subito dopo gli attentati terroristici del 2015. Inoltre, il governo non ha saputo adottare delle politiche concrete per superare le disparità territoriali tra le regioni interne e quelle costiere. Durante gli anni della dittatura, gli investimenti si sono concentrati solo nella zona nordoccidentale, dimenticando le aree centrali e meridionali, le quali ancora oggi sono tra le più povere del Paese. I dati sono preoccupanti: in queste regioni, l’accesso all’acqua potabile è assicurato solo al 27% della popolazione, il tasso di analfabetismo supera il 32% e la disoccupazione si aggira intorno al 30%. Kassrine, dove in questi giorni si stanno svolgendo le proteste più dure e Sidi Bouzid, dove partì la “rivoluzione dei gelsomini” cinque anni fa, si situano proprio in queste regioni sotto-sviluppate e ancora oggi, senza risposte concrete, il pericolo di ritornare nel caos è latente.

La sfiducia e la marginalizzazione di molti giovani, che sono stati i primi a scendere in piazza nel 2010, sono fra le principali cause che hanno portato numerosi ragazzi ad avvicinarsi all’estremismo religioso, per lo più individuale. Per alcuni di essi, questo vuol dire seguire uno stile di vita prettamente legato ai dettami religiosi - i cosiddetti salafiti - mentre per altri significa essere coinvolti in una lotta politica e ideologica contro lo Stato e l’Occidente. Tra questi, si contano circa 3000 tunisini che hanno lasciato il proprio Paese per andare a combattere la jihad in Siria e in Libia, alla ricerca di una risposta ai loro sentimenti di rabbia e delusione. Inoltre, nelle zone di confine con l’Algeria e nelle periferie della capitale, dove le condizioni di vita sono più difficili, si stanno insediando piccole cellule terroristiche associate ad Al-Qaeda nel Maghreb islamico e allo Stato Islamico. Gli attentati terroristici dei primi mesi del 2015 dimostrano come la radicalizzazione si stia diffondendo e come la Tunisia sia troppo vulnerabile davanti a queste minacce. Gli obiettivi dei terroristi non sono stati solo i turisti, ma soprattutto i rappresentanti delle forze dell’ordine, oggetti di numerosi attentati che hanno provocato almeno una cinquantina di vittime. L’instabilità in Libia e il conseguente poco controllo dei confini ha anche creato zone grigie in cui i cittadini si governano da soli e si finanziano attraverso un mercato informale basato sul contrabbando dei beni di prima necessità e soprattutto di armi e carburante. In queste aree sono in aumento la criminalità e i tentativi di infiltrazione terroristica.

L’Unione Europea e gli Stati Uniti sono stati tra i primi a esprimere il proprio sostegno al piccolo Paese africano nella lotta al terrorismo, ma c’è bisogno di un cambio di direzione da parte di chi è al potere. Il popolo non si sente più rappresentato dagli esponenti politici, tra cui sono presenti anche figure legate al vecchio regime. C’è bisogno di un rinnovamento, non solo dei volti ma anche della policy. Sono necessari un nuovo approccio basato su interventi politici, economici e sociali, misure concrete per contrastare la radicalizzazione e politiche di sviluppo mirate e ben pianificate che possano diminuire le disparità interne.

Ci sarà una nuova rivoluzione? Il popolo tunisino è orgoglioso del grande passo compiuto nel 2010, ma è consapevole anche che un’altra rivoluzione potrebbe non essere benevola per il proprio futuro. Sono necessarie risposte forti e celeri da parte del governo, per dare una scossa a un Paese che ha tutte le carte in regola per divenire il primo, e molto probabilmente l’unico, successo della Primavera Araba.

4 febbraio 2016

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