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Un tribunale modello

il successo della Corte Speciale per la Sierra Leone

Spesso la giustizia internazionale è oggetto di critiche, più o meno fondate. C’è un caso però che costituisce il “fiore all’occhiello” del sistema, ed è quello della Corte Speciale per la Sierra Leone. Questo tribunale internazionale è infatti riuscito - a differenza dei suoi due più celebri predecessori, il Tribunale per la ex Jugoslavia e quello per il Ruanda - a esaurire in tempi brevi il suo mandato e a completare il trasferimento dei poteri residuali alla giustizia nazionale.

Le sue Camere hanno infatti chiuso i battenti, lasciando spazio alla Corte Suprema della Sierra Leone, dopo aver giudicato i leader delle Civil Defence Forces, del Revolutionary United Front e dell’Armed Forces Revolutionary Council. L’imputato più famoso, tuttavia, è stato l’ex presidente liberiano Charles Taylor, condannato a 50 anni di carcere perché ritenuto responsabile di più di 40 capi di accusa, tra cui atti di terrorismo, omicidio, stupro, schiavitù sessuale, oltraggio alla dignità personale, trattamento crudele e altri atti inumani, arruolamento di minori di 15 anni e saccheggio. Con il processo a suo carico - iniziato il 4 giugno 2007 e conclusosi nel settembre 2013 - Taylor è il primo capo di Stato giudicato da una corte internazionale dopo Karl Donitz, l’ammiraglio che prese il potere dopo il suicidio di Hitler e che venne processato a Norimberga.

È stato proprio grazie a Taylor che il 23 marzo 1991 le forze del Revolutionary United Front (RUF), un gruppo nato negli anni ’80 in opposizione al partito unico dell’All People Congress e addestrato dallo stesso Taylor, attaccarono la Sierra Leone - entrando dalla vicina Liberia. Le risorse utilizzate dai ribelli del RUF provenivano dalla vendita dei diamanti ottenuti grazie all’occupazione di miniere governative e al lavoro coatto dei prigionieri - i blood diamonds resi famosi dall’omonimo film con Leonardo Di Caprio. L’incapacità delle forze governative di fermare autonomamente i ribelli portò alla creazione di gruppi paramilitari guidati dai civili, comunemente noti come Civil Defence Forces (CDF).

La guerra civile che ne derivò vide crimini commessi da entrambe le parti in conflitto: i ribelli del RUF adottarono una strategia di terrore contro la popolazione civile, mentre le forze governative iniziarono a reclutare bambini soldato. La Economic Community of West African States (ECOWAS) - il gruppo di 16 stati dell’Africa occidentale creato su una base strettamente economica nel 1975 - impose un embargo di armi e merci contro la Sierra Leone e decise lo schieramento delle forze ECOMOG per attuare queste sanzioni. L’ONU invece inviò nel territorio la missione di peacekeeping UNAMSIL.

La firma, nel 1999, dell’accordo di pace di Lomè tra i ribelli del RUF e il governo della Sierra Leone, non pose fine al conflitto. Molti gruppi si opposero al disarmo, prolungando di fatto le ostilità - terminate ufficialmente solo nel gennaio 2002.

Per giudicare i maggiori responsabili dei crimini commessi, il Segretario generale delle Nazioni Unite ha negoziato un accordo con il governo della Sierra Leone per la creazione della Corte Speciale, un tribunale misto che divenne operativo il 16 gennaio 2002 con la firma dello Statuto a Freetown - capitale del Paese e sede della Corte stessa.

Il tribunale costituiva un’istituzione giuridica assolutamente unica, in quanto collocato nel territorio in cui erano stati commessi i crimini che era chiamato a giudicare e poiché finanziato da contributi volontari degli Stati membri. In poco più di dieci anni la Corte è riuscita a condannare i maggiori responsabili dei crimini dal 1996 al 2002 e a lasciare una percezione positiva alla popolazione, che è stata coinvolta attivamente nei processi e non lasciata ai margini dalla giustizia internazionale.

Insomma, una struttura che ha compiuto il suo dovere. Puntando su caratteristiche particolari, in risposta alle carenze dei due tribunali ad hoc degli anni ’90.

Obiettivo della creazione di una nuova corte internazionale era infatti quello di superare alcuni limiti dei Tribunali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, ovvero i costi elevati, l’eccessiva lunghezza dei processi e la distanza dal territorio in cui erano stati commessi i crimini. La presenza di giudici nazionali e internazionali si è dimostrata un ottimo metodo per rispondere al collasso del sistema giudiziario dello Stato: i giudici nazionali, più affini alla cultura e al linguaggio degli individui coinvolti come autori dei crimini, vittime o testimoni, hanno permesso una maggiore vicinanza della popolazione ai procedimenti in corso, mentre i giudici internazionali hanno garantito l’applicazione delle norme di diritto internazionale.

La sensazione, tra gli abitanti della Sierra Leone, è quella di un tribunale che ha sostanzialmente adempiuto al suo mandato, sebbene resti ancora del lavoro da fare. In particolar modo, spicca il dato positivo dell’aver assicurato alla giustizia i maggiori responsabili dei crimini commessi durante il conflitto. Secondo un sondaggio condotto dall'Unione europea nello scorso maggio, l'80% dei superstiti a Freetown crede che la Corte abbia compiuto totalmente il suo mandato, e il 91% sostiene che essa abbia contribuito a rafforzare il processo di pace e stabilità nel Paese, anche per la sua presenza fisica sul territorio. Questo ha infatti permesso una grande partecipazione della popolazione ai processi e ai lavori della Corte, che sono stati integralmente trasmessi via radio - il mezzo di comunicazione più diffuso nel Paese.

Non ultimo, la quasi totalità della popolazione rispetta e ritiene giusti e imparziali i verdetti della Corte, al contrario di quanto avviene per le sentenze di altri tribunali internazionali - basti pensare alla percezione diametralmente opposta, nei confronti dei giudizi del Tribunale penale per la ex Jugoslavia, di Serbia e Croazia, che considerano gli ufficiali della propria nazionalità eroi di guerra e manifestano in piazza dopo ogni sentenza dell’Aja.

Una Corte esemplare, insomma, che spezza una lancia in favore della giustizia internazionale, capace - se opera in modo efficace - di mostrarsi un potente strumento per la riconciliazione e la prevenzione di futuri conflitti.

Martina Landi

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

16 gennaio 2014

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