
Liu Xiaobo
Ci avviciniamo al 6 marzo, Giornata dei Giusti, indissolubilmente legata ai temi della democrazia e la prevenzione dei genocidi, voluta con tenacia da Gariwo, ispirandosi al Giardino dei Giusti di Gerusalemme; appoggiata nel 2012 dal voto del Parlamento europeo e nel 2017 da quello del Parlamento italiano che l'ha resa solennità civile in Italia, per ricordare coloro che si sono opposti con responsabilità individuale ai crimini contro l'umanità e ai totalitarismi.
Quest’anno sarà ricordato, tra gli altri, il cinese Liu Xiaobo che, insieme alla moglie Liu Xia, fu capace di rilanciare un messaggio, in occasione del suo arresto che, come ha ricordato su queste pagine Gabriele Nissim, “potrebbe diventare un manifesto per rinnovare il gusto della democrazia e del pluralismo ovunque”. “Non ho nemici, né provo odio” aveva detto ai suoi carcerieri Liu Xiaobo.
Quell’odio che, aggiungeva, “corrompe la coscienza e l’intelligenza dell’uomo, insieme con la mentalità da nemico, che avvelena lo spirito di una nazione, istigano alla lotta brutale in cui domina la regola mors tua vita mea, distruggono la tolleranza e l’umanità di una società, ostacolano il progresso di una nazione verso la libertà e la democrazia.”
Liu Xiaobo, che era stato attivo per anni nella difesa dei diritti umani nel suo Paese, aveva ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 2010 "per il suo impegno non violento a tutela dei diritti umani in Cina". Primo cinese a ricevere questo importante riconoscimento durante la detenzione, lo scrittore Liu, professore di letteratura, aveva iniziato la sua attività di dissidente nel 1989, quando partecipò alle manifestazioni in piazza Tienanmen.
Accusato e condannato nel 1991, successivamente aveva sottoscritto il manifesto Charta 08, nel dicembre del 2008, in occasione del sessantesimo anniversario dell'adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani, raccogliendo subito adesioni sia di semplici cittadini che di intellettuali e attivisti. A sostenere la sua candidatura c’era stato, tra i molti, anche Václav Havel autore della Charta 77 che apri la strada alla democratizzazione nell’Europa centrale e orientale.
Non è corretto distinguere tra quanti si battono, spesso a rischio della loro libertà personale, in tutto il mondo. Cambiano i contesti politici e culturali, i modi di agire per non essere sopraffatti dalle reazioni di regimi e governi che non intendono lasciare spazio alla libera espressione del pensiero e della coscienza dei loro cittadini.
E sappiamo che questa aspirazione concreta è sottoposta quotidianamente alle dure condizioni della realpolitik. Gli stessi governi democratici, spesso finiscono con l’accettare violazioni palesi di questi diritti fondamentali al loro interno (ne abbiamo esempi recenti in Polonia e Ungheria) e, soprattutto, nelle loro relazioni con altri Paesi. Prevalgono interessi commerciali, equilibri geopolitici, recentemente persino le diverse posizioni rispetto agli orientamenti religiosi e settari (si pensi allo scontro tra sunniti e sciiti nella vasta aerea del Medio Oriente).
Per questa ragione è importante ricordare figure come Liu Xiaobo che hanno conciliato la tenacia della loro denuncia con la manifestazione di un atteggiamento non violento e non ispirato all’odio. La Storia ci ha insegnato che questi atteggiamenti possono alla fine avere la ragione.
La difesa dei diritti umani si confronta sempre con le azioni di singoli Stati. Ne sa qualcosa l’Unione europea che in questi giorni è impegnata su diversi fronti, in particolare con la Russia dopo l’arresto di Alexei Navalny, dopo il suo rientro a Mosca dalla Germania e un rapido processo.
Il Consiglio dei ministri dell’UE ha infatti deciso, martedì 2 marzo, di imporre misure restrittive per quattro esponenti delle autorità russe, responsabili di serie violazioni dei diritti umani, compreso l’arresto e la detenzione arbitraria, così come la dispersione e la repressione sistematica di pacifiche manifestazioni.
Questa decisione fa parte del nuovo regime globale dell’UE per le sanzioni in caso di violazione dei diritti umani, dovunque accadano nel mondo, adottato dall’UE il 7 dicembre dello scorso anno. Ne avevamo parlato in questa rubrica a dicembre.
Si tratta di una sorta di “Magnitsky Act” europeo, simile a quello adottato dagli Stati Uniti nel 2012 per sanzionare i responsabili della morte di Sergey Magnitsky, esperto fiscale in Russia, per aver scoperto una frode che coinvolgeva funzionari corrotti. Nel 2016, questa norma estese il regime Usa di sanzioni a gravi violazioni dei diritti umani e atti di corruzione ovunque nel mondo. Altri Paesi, da allora hanno adottato leggi simili. Queste misure, che prevedono divieti di viaggio e il congelamento dei fondi a persone fisiche e entità giuridiche, si applicano anche ad atti come il genocidio, crimini contro l'umanità e altre gravi violazioni o abusi dei diritti umani (tortura, schiavitù, esecuzioni extragiudiziali, arresti arbitrari o detenzioni). È un terreno impervio, come dicevamo prima, rispetto al quale però non si può abdicare.
In questo contesto ha fatto irruzione (benefica, e ce n’era tanto bisogno!) il nuovo Presidente americano Joe Biden. Il suo America is back! è diventato il leit motiv di numerose decisioni che stanno restituendo agli Usa il ruolo (e le responsabilità) che gli spettano sulla scena internazionale (rientro nella Conferenza di Parigi sul cambiamento climatico, rientro nella Commissione diritti umani dell’Onu, la clamorosa denuncia dei responsabili dell’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, ucciso in maniera feroce all’interno dell’Ambasciata del suo Paese in Turchia).
Biden ha anche detto cose importanti riguardo al futuro atteggiamento degli Stati Uniti sulla scena mondiale per quanto riguarda la difesa della democrazia e dei diritti umani. Parlando (in remote) alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, il 19 febbraio scorso, ha ribadito che “dobbiamo dimostrare che le democrazie possono tuttora rispondere ai nostri cittadini in questo mondo che cambia”. Aggiungendo però che “la democrazia non si realizza per caso. Dobbiamo difenderla, batterci per essa, rafforzarla, rinnovarla”.
E non si tratta, ha spiegato, di contrapporre Est ed Ovest. “Vogliamo un futuro dove tutte le nazioni siano capaci di determinare liberamente le loro aspirazioni senza minacce di violenza o di coercizione. Non possiamo né vogliamo tornare ai blocchi della Guerra Fredda”.
Ecco, questo quadro potrebbe essere arricchito da un lato dalla denuncia delle tante, troppe, violazioni della libertà e dei diritti che si perpetrano in tutto il mondo, ma anche di quanto si fa per realizzare nuove convergenze tra attori statali e non nell’azione per contrastare quelle violazioni. È un confine mobile, che ripropone continuamente contraddizioni e limiti. Per questo il Ricordo e il riconoscimento dei Giusti è utile a indicare il cammino da compiere ogni giorno.

Bruno Marasà, già Responsabile Parlamento Europeo - Ufficio di Milano