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Un'intransigenza controproducente

Il Cardinal Mindszenty e la repressione dei cattolici

“Nel 1956 il cardinal Mindszenty fece una sorta di scommessa disperata per la libertà dell’Ungheria, pensando che sarebbe stato appoggiato dai poteri occidentali di allora. E questo non è successo. Fu una mossa strategica poco lungimirante. Inoltre, l’ostpolitik del Vaticano in Ungheria fu sbagliata e finì col mettere la leadership della Chiesa ungherese nelle mani del partito comunista, e soprattutto dei servizi segreti ungheresi. Così alla fine della guerra fredda, l’Ungheria, che sarebbe dovuta essere l’esempio dell’ostpolitik in azione, si è trovata con una Chiesa che era nelle condizioni di debolezza peggiori di qualsiasi altra Chiesa di oltrecortina. E credo che ancora oggi soffra di questa debolezza.” 


Questo duro giudizio dello storico George Weigel sulla situazione della Chiesa ungherese ed in particolare dell’ostpolitik vaticana degli anni sessanta e settanta descrive molto bene ciò che incontrammo nei nostri viaggi. 


L’intransigenza del Cardinal Mindszenty, il suo rifiuto di qualsiasi forma di dialogo, se da un lato ne indicano la tempra morale, dall’altro avevano creato una situazione devastante per la vita della Chiesa, che era stata costretta a piegarsi ai diktat delle autorità dopo la condanna del cardinale nel 1950 a seguito di un processo che resta una delle pagine più buie della storia dei Paesi dell’Est. L’alto prelato fu rinchiuso per quindici anni fra le mura dell’Ambasciata americana a Budapest, dove si era rifugiato dopo la sconfitta della rivoluzione del 1956, e ne uscì solo nel 1971 per stabilirsi a Vienna. 


Nel 1950, mentre il Cardinal Mindszenty e migliaia di monaci e monache erano in carcere, l’Arcivescovo Jozszef Grosz aveva firmato un accordo con lo Stato, rinnovato nel 1964. L’accordo limitava fortemente la sfera d’azione della Chiesa, imponeva ai vescovi di reprimere i sacerdoti non graditi alle autorità e permetteva al governo di interferire nelle nomine di vescovi e parroci, che dovevano avere il benestare dell’Ufficio per gli Affari Religiosi, come pure le candidature al sacerdozio. In tal modo, all’interno delle curie vescovili, dei seminari e delle parrocchie si infiltrarono molti collaboratori dei servizi segreti. Venne anche coniata un’espressione: “vescovi con la barba” per indicare la lunga fila di collaboratori dei vescovi, che in realtà erano agenti dei servizi, da cui si doveva passare prima di poter avere accesso al vescovo, di cui controllavano la corrispondenza, le telefonate, i contatti. Nello stesso anno era nato il Movimento dei Preti per la Pace, cioè un movimento di sacerdoti che collaboravano con lo Stato, e la gerarchia lo aveva accettato per evitare uno scisma, nonostante in alcuni casi si trattasse di falsi sacerdoti, in realtà vere e proprie spie del regime. 


Era una situazione sostanzialmente paralizzante per l’azione pastorale: il culto era tollerato, l’unica forma di catechesi permessa era quella che si svolgeva durante i servizi liturgici dentro le mura delle chiese e ai sacerdoti era negato ogni rapporto con i giovani.
La pragmatica ostpolitik vaticana e la cosiddetta “politica dei piccoli passi” perseguita soprattutto dal Cardinal Casaroli e dal primate ungherese Lekai si limitavano a contatti di vertice con la gerarchia politica ed ecclesiastica, che, come abbiamo detto, in alcuni casi era connivente con il regime e in altri era frenata dal ricordo delle terribili persecuzioni dell’immediato dopoguerra. Dopo il 1956 l’attenzione dell’Occidente e del Vaticano verso la situazione dei paesi dell’Est era calata, e soprattutto la Chiesa non teneva in alcun conto, o osteggiava apertamente, le timide iniziative che nascevano dal basso, che invece erano la cosa per noi più interessante. 


Venimmo così in contatto con due realtà particolarmente significative: il movimento di sacerdoti Regnum Marianum, e la comunità “Bukor” (Cespuglio).
Il Regnum Marianum era stato duramente perseguitato negli anni sessanta, quando numerosi aderenti al movimento erano stati rinchiusi nel carcere per i nemici del popolo Maria Nostra accusati di attività sovversiva. Erano sacerdoti  che cercavano di vivere in comunità e che, pur tra mille difficoltà e con la necessità di adottare infinite precauzioni, avevano dato vita ad alcune comunità giovanili che assumevano la forma di cori. Per questo, data la grande tradizione coreutica ungherese, erano in qualche modo tollerati dalle autorità.


Due sacerdoti del Regnum, Bela Csanad e Miklós (“Miki”) Blankestein, organizzarono alcuni incontri fra noi e i loro giovani. Gli incontri si svolgevano rigorosamente nei boschi, lontano il più possibile da occhi e orecchi indiscreti. Si arrivava alla spicciolata e ci si addentrava nei boschi come dei normali cercatori di funghi o amanti della natura, quindi ci si ritrovava nel luogo convenuto. In realtà non facevamo niente di particolarmente “sovversivo”: si cantava, ci si scambiavano le proprie esperienza in tema di fede, ci si raccontava come era la propria vita universitaria, si cercava di dare un giudizio sulla situazione che stavamo rispettivamente vivendo, cercando le ragioni più profonde e le modalità di un impegno serio con la vita e soprattutto si stava insieme, condividendo un momento di convivenza molto semplice, ma anche molto carico di valore. Per noi l’incontro con loro era una scoperta continua di come la tensione alla libertà e a rapporti veri sia un’esigenza insopprimibile del cuore umano, per loro l’incontro con noi era importante perché li toglieva dall’isolamento e sapevano che c’erano persone che condividevano la loro fatica e su cui sapevano di poter contare.


L’altra comunità con cui stabilimmo dei rapporti stabili era “Bukor” (Cespuglio) fondata da padre György Bulanyi, che riuniva un gruppo di intellettuali cattolici e di laici che desideravano poter dare un contributo attivo alla vita della Chiesa e, attraverso la pratica della non violenza, di incidere in qualche modo sulla realtà. Il nome, “Cespuglio”, stava ad indicare il fatto che la comunità, come un cespuglio appunto, nasceva dal basso, non aveva vertici e si sviluppava tutt’intorno, in modo circolare. 


Il movimento, soprattutto per l’esplicito rifiuto dei suoi aderenti di fare il servizio militare, aveva incontrato le dure resistenze del regime e padre Bulanyi era stato ripetutamente perseguitato dai servizi di sicurezza, ma era anche fortemente osteggiato dalla gerarchia ecclesiastica che lo riteneva “un movimento gravemente perturbatore” , tanto da sottoporre i suoi scritti alla Congregazione per la Dottrina della Fede (presieduta allora dal cardinal Ratzinger), che però non vi trovò elementi in contraddizione con il magistero della Chiesa. Ciononostante il Primate sospese a divinis padre Bulanyi. “CSEO Documentazione” dedicò ampio spazio al “caso Bulanyi”, che fu anche un giudizio sulla politica ecclesiale ungherese degli anni settanta e ottanta. Infatti leggiamo in un editoriale: “L’istituzione ecclesiastica sembra abbia nettamente privilegiato il criterio del mantenimento della «cordiale intesa» con il potere a qualunque altra considerazione ecclesiale e sociale” , mentre in un documento fatto circolare dal movimento leggiamo: “Lo scandalo più grande della Chiesa ungherese è che i Pastori non sono più disposti a dialogare con i loro preti né con i laici. Anche i muri delle loro camere hanno orecchie ed essi non hanno nemmeno più il coraggio di creare occasioni di dialogo «senza orecchie» con i rappresentanti delle comunità di base (…) . La vita delle piccole comunità e della Chiesa ungherese dipende da quelli che non sono più disposti a mentire e a fare come se la situazione non fosse quella che è”. 


Un incontro particolarmente significativo per noi avvenne all’inizio degli anni Ottanta. Una sera alcuni nostri amici, senza preavviso, ci portarono in macchina al limitare di un bosco da dove cominciò un lungo cammino a piedi. Ad un certo punto arrivammo ad una piccola casa di legno dove inaspettatamente incontrammo un gruppo di suore cistercensi di clausura. L’ordine, come quasi tutti gli ordini religiosi ungheresi, era stato soppresso negli anni Cinquanta e tutti i monasteri erano stati chiusi. Tuttavia un piccolo gruppo di suore, dopo essere uscite dal carcere, sotto la guida della loro superiora, madre Agnes, avevano deciso continuare la loro vita religiosa sotto un’altra forma: durante la settimana stavano in città e svolgevano una professione laica, nascondendo nel modo più assoluto la loro identità religiosa. Se era possibile, vivevano a due o tre in piccoli appartamenti, poi, durante il week end andavano in quel “monastero” nei boschi, indossavano un semplice saio grigio e vivevano la regola di silenzio e preghiera dei cistercensi. Erano circa una decina, ma la cosa che ci colpì di più era la presenza fra molti volti anziani di alcune giovani novizie. Ci spiegarono che già nel 1956 cercavano di vivere una forma di vita comunitaria, di seguire la Regola di san Benedetto ognuna a casa propria incontrandosi di tanto in tanto in un appartamento al centro di Budapest di cui avevano insonorizzato le pareti, però nel 1962 erano state scoperte ed erano state tutte arrestate. Dopo il rilascio avevano scelto di essere ancora più prudenti e di ritrovarsi nel bosco facendo finta di non conoscersi durante lo spostamento in treno. Nonostante la necessaria prudenza, e le difficoltà di una vita “schizofrenica” per delle monache di clausura, avevano molte candidate al monastero ed erano un punto di riferimento per molti laici.


In Ungheria il nostro lavoro, per quanto riguarda i rapporti con la Chiesa, si concentrò soprattutto sul sostegno a queste realtà, piccole e nascoste, che, come nel caso di padre Bulanyi subivano l’emarginazione e gli attacchi non solo del regime, ma anche spesso dei propri superiori, e quindi vivevano un doppio dramma e una terribile solitudine, cui cercammo di portare sollievo con frequenti visite e cercando di farne conoscere la situazione in Italia e in Vaticano.


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Annalia Guglielmi

Annalia Guglielmi, esperta di Polonia ed Europa dell'Est

14 marzo 2014

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