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Che cosa è successo a Chernobyl

di Francesco M. Cataluccio

Chernobyl in ucraino significa “erba nera”. È una cittadina, a una quarantina di chilometri da Kiyv (Kiev), fondata un migliaio di anni fa, che fu abitata soprattutto da ebrei. Semidistrutta e spopolata dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale, fu scelta, nel 1970, per istallarvi una Centrale nucleare. A 12 chilometri dalla Centrale fu costruita la moderna città di Pripjat’, sulle rive dell’omonimo fiume, per ospitare gli scienziati, le maestranze e le loro famiglie. Ci vivevano 45.000 persone (delle quali 16.000 bambini), provenienti da ogni parte dell’Urss. I suoi abitanti erano, rispetto allo standard di vita della grande maggioranza degli altri cittadini sovietici, dei privilegiati: guadagnavano mediamente tre volte tanto; vivevano in case costruite in modo più solido e confortevole; ciascuno aveva l’appartamento indipendente e l’automobile, belle scuole, attrezzature sportive e un grande parco dei divertimenti; negozi ben forniti.

Il nome di Chernobyl divenne famoso in tutto il mondo dopo il 26 aprile del 1986 quando, nella locale centrale elettronucleare, si verificarono due conseguenti esplosioni che provocarono l’immediata morte di 31 persone e fecero scoperchiare il tetto disperdendo nell’atmosfera grandi quantità di vapore contenente particelle radioattive. Durante l’esecuzione di un test di simulazione di guasto al sistema di raffreddamento del reattore numero 4, per un errore degli operatori, guidati dall’ingegnere Valerij Chodemčuk, le barre di uranio del nocciolo del reattore si surriscaldarono per davvero (raggiungendo un picco di valore pari a 100 volte quello stabilito) provocando la fusione del suo cuore. Il reattore nucleare era del tipo RBMK-1000, costruito con grafite e alimentato a biossido di uranio arricchito. La sua caratteristica era di possedere un “coefficiente di vuoto positivo”: se aumenta la potenza o diminuisce il flusso dell’acqua di raffreddamento del sistema, c’è un aumento della produzione del vapore nei canali di alimentazione. Così, i neutroni, che vengono assorbiti dall’acqua più densa, producono un aumento della fissione nucleare nell’alimentazione del sistema e quindi particelle radioattive (che possono essere rilevate ancora oggi con un contatore Geiger a circa 10 centimetri sotto la superficie).

Per molti giorni le autorità sovietiche negarono la portata della catastrofe, anche se un laboratorio di ricerche nucleari in Danimarca e i satelliti spia statunitensi avevano annunciato, già il 28 aprile, un “incidente di enorme portata”. Si levò in pochi giorni un’immensa nube, composta da tonnellate di materiale radioattivo che il vento portò in tutta Europa e raggiunse il Mediterraneo nei successivi 14 giorni, riportando a terra con la pioggia le scorie radioattive.

I soccorsi mostrarono da subito impreparazione e improvvisazione. I pompieri a disposizione della Centrale erano soltanto 14. Si gettarono letteralmente nel fuoco, senza alcuna tuta di protezione. Le radiazioni bruciarono rapidamente tutte le loro cellule vitali. Cinque ore dopo arrivarono i rinforzi: 250 uomini disponibili, 69 operativi. Moriranno tutti. L’incendio continuò ad autoalimentarsi e, il 4 maggio, il nucleo del reattore, ormai completamente fuso, iniziò a sprofondare nella terra, rischiando di far entrare in contatto la grafite in fusione con la falda acquifera sottostante e provocare un’esplosione termonucleare. Per evitare questo, 400 minatori della regione del Donets’k, anch’essi inconsapevolmente votati alla morte, furono costretti a scavare sotto la Centrale un tunnel per portare dell’azoto liquido che, dopo l’evaporazione, potesse saldare la terra con il cemento e formare una sorta di cuscino per isolare il reattore. Tornavano su, dopo turni di tre ore di immersione in una stretta galleria, privi delle maschere e a torso nudo per il caldo irrespirabile, investiti da livelli di radiazione impensabili, e si sentivano subito male. Per due settimane, dall’alto, 1.800 operai ed elicotteristi ricoprirono il nocciolo fuso, con sabbia a base di boro, silicati, dolomia e piombo, finché l’emissione di vapore radioattivo cessò sabato 10 maggio: “Si facevano quattro o cinque voli nell’arco delle 24 ore a un’altezza di 30 metri sopra al reattore, con una temperatura della cabina che raggiungeva i 60 gradi. Ci si può immaginare cosa succedeva di sotto, quando venivano lanciati i sacchetti di sabbia... La radioattività raggiungeva i 1.800 röntgen per ora (50 röntgen è la dose mortale). I piloti avevano dei malori già durante il volo. Per aggiustare la mira e colpire il bersaglio, cioè il cratere infuocato della Centrale, sporgevano la testa dalla carlinga e calcolavano a occhio. Non c’era altro sistema...”, ha raccontato Sergej Vasil’evič Sobolev, dell’Associazione “Uno scudo per Chernobyl”.

Per portar via le macerie si cercò dapprima di utilizzare dei robot tedeschi, giapponesi e sovietici. Ma i loro sistemi elettronici andavano in tilt rapidamente a causa del livello estremamente elevato delle radiazioni. Fu quindi presa la decisione di usare gli uomini: dei “robot biologici”. Una sirena ululava all’inizio e alla fine di ogni intervento, che doveva durare meno di un minuto. Quanto bastava per ricevere una dose di radiazioni pari, se non superiore, al massimo ammesso per l’intera durata della vita umana.

Migliaia di persone vennero profondamente contaminate: le loro cellule erano impazzite, il sistema genetico in subbuglio, la tiroide compromessa. I feti delle donne incinte non avevano alcuna speranza, così come molti bambini. Molti di quei bambini contaminati sono stati adottati a distanza da famiglie italiane che li hanno, e continuano ancora, ospitati per soggiorni e vacanze in Italia.

Dopo 36 ore dall’incidente iniziò l’evacuazione dell’area di Chernobyl della popolazione residente. In 2 ore, il 28 aprile, circa 350.000 persone furono portate via dalla vicina città di Pripjat’ e dalle campagne adiacenti, in gran segretezza. Dovettero lasciare lì tutto. La maggior parte fu trasferita in città della Siberia, per evitare che raccontassero la loro tragedia. In una Zona di 30 chilometri quadrati di diametro non rimase più nessuno e fu delimitata da filo spinato e pattugliata dall’esercito. Oggi, nonostante i molti anni trascorsi, le incursioni più o meno autorizzate per riprendersi le proprie cose e le razzie di sciacalli disperati, è ancora tutto lì: la città deserta sembra esser stata abbandonata da poco. Qualche vecchio è tornato nella propria casa. Tre dei quattro reattori hanno ripreso a funzionare.

Il reattore distrutto fu, nel mese di novembre, ricoperto da una struttura di contenimento in Bario, chiamata “Sarcofago”: una vera e propria piramide del XX secolo, progettata per resistere 30 anni (ma già nel 1995 venne rilevato che la struttura presentava fratture e crepe per 250 metri quadrati). Grazie ai finanziamenti europei, dieci anni fa, è stato costruito un nuovo “Sarcofago”.

La giornalista ucraino-bielorussa Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura, nell’introduzione al suo prezioso libro di interviste Preghiera per Černobyl’ (2001; trad. it. edizoni e/o, Roma 2002), sostiene che Chernobyl è diventata una metafora, un simbolo e anche un enigma che dobbiamo ancora decifrare: «È più che una catastrofe (...) È accaduto qualcosa per cui ancora non abbiamo né un sistema di rappresentazione, né analogie, né esperienza, al quale non è adeguata né la nostra vista, né il nostro orecchio ed è perfino inadatto il nostro vocabolario (...). Chernobyl ci ha trasferiti in un’altra epoca».

Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

16 marzo 2022

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