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Armenia, dal sussurro di Dio al tuono di Marte

di Michel Petrossian, compositore, Grand Prix Reine Élisabeth

Riportiamo di seguito la traduzione di un articolo scritto dal compositore armeno francese Michel Petrossian. A questo link è possibile visualizzare l'articolo originale (in francese)

L'Armenia non è forse gran cosa. Non è una potenza economica e l'occhio avido di un commerciale scivolerebbe indifferente sulle sue fragili performance finanziarie. Non è nemmeno una potenza militare, a malapena il necessario per garantirne la sopravvivenza.
Si può dunque trascurarla, non dovrebbero succedere incidenti diplomatici, o quasi.
Gli ignoranti a volte adottano uno sguardo di benevola condiscendenza nei confronti dell'Armenia. Fino a quando non abbiano l'opportunità di provare ciò che essa realmente contiene.
L'Armenia è la rosa mistica, quella senza perché. Il suo fascino è riservato a chi non misura in chili o in chilometri, come se, a causa di peso e misura, un diamante fosse meno prezioso di una tonnellata di carbone.
L'Armenia è al centro di un mormorio, quello che Elia sperimentò dopo che un vento violento, un terremoto e il fuoco avevano preparato il passaggio di Dio.
L'eco di civiltà ormai scomparse da secoli, raccolto nei suoi angoli discreti, sorge all'improvviso lungo i suoi sentieri sperduti dove nessun viandante si avventura.
Ma oggi, ahimè, è la voce di Marte, dio della guerra, a tuonare nel cielo di questa regione.

Dal 27 settembre l'esercito del vicino Azerbaijan, sostenuto dalla Turchia, ha dispiegato una vera e propria offensiva militare, bombardando tutta la frontiera dell’Alto-Karabakh (Artsakh, in armeno). Coprendo un'area di circa 11.500 km², popolata da 151.000 abitanti, questa regione storica armena situata tra i due paesi è stata citata da Strabone, Plinio il Vecchio o Plutarco. Nel I secolo a.C., il re armeno Tigran II il Grande aveva costruito una città a suo nome nella parte orientale dell'Artsakh, e la prima scuola armena era stata fondata più a sud, all'interno del monastero di Amaras, da Mesrop Mashtots, l'inventore dell'alfabeto armeno.

Territorio conteso tra Persia, Turchia e Russia, l’Alto-Karabakh è riuscito tuttavia a mantenere la sua identità, la sua lingua e la sua cultura armene, e fino al 1813, la diocesi di Artsakh contava non meno di 1311 tra chiese e monumenti. La rivoluzione bolscevica permise per la prima volta all’Alto-Karabakh di diventare indipendente, dal 1918 al 1920.

1921: l'accorpamento dell’Alto-Karabakh all'Azerbaigian

L’Alto-Karabakh venne dunque dotato di un Consiglio nazionale, di un governo e di forze armate, poi annesso alla Repubblica socialista di Armenia con tre decisioni successivamente ratificate. Il 30 novembre 1920 il comitato rivoluzionario dell'Azerbaigian, una repubblica a sua volta creata due anni prima, riconobbe che il Karabakh, insieme a Nakhichevan, un'altra regione armena al confine con la Turchia, facevano parte dell'Armenia sovietica. Questa decisione fu confermata il 12 giugno 1921 dal Consiglio nazionale della Repubblica dell'Azerbaigian, e il 4 luglio 1921 il Dipartimento per il Caucaso del Partito Comunista di Russia, riunitosi a Tbilisi, ratificò definitivamente la situazione.
Tuttavia, con un improvviso stravolgimento, il giorno successivo Stalin intervenendo direttamente accorpò l’Alto-Karabakh e Nakhichevan all'Azerbaigian, nonostante il 95% della popolazione di questo territorio fosse armena e contravvenendo a tutte le disposizioni previamente statuite.

Da allora, la contestazione di questa assegnazione è stata forte da parte delle popolazioni interessate. La questione della riunificazione con l'Armenia è stata sollevata in più occasioni, con grosse petizioni rivolte al potere centrale sovietico e con manifestazioni popolari massicce, nel 1963, 1965, 1966 e 1977. Il destino di Nakhitchevan, gradualmente epurato della sua popolazione armena e il cui patrimonio culturale è stato completamente cancellato - in particolare con la distruzione supportata dall'esercito e i bulldozer del più grande cimitero armeno del mondo, un vero e proprio museo a cielo aperto che ospitava più di 10.000 khachgar, croci di pietra decorata - servì da monito agli Armeni del Karabakh che naturalmente non desideravano subire lo stesso destino.
La scelta di Stalin era motivata da due ragioni. In primo luogo, la Turchia kemalista lasciava intendere la possibilità di aderire all'Unione Sovietica, e le concessioni territoriali di Stalin come pure il considerevole sostegno finanziario rappresentavano, dal lato sovietico, segni di buona volontà. Le testimonianze dell'immediato entourage del grande dittatore attestano che nel 1941 Stalin si era pentito di questa scelta.
L'altro motivo era radicato in una certa lungimiranza dei dirigenti sovietici. Nonostante gli slogan bombastici sull'indistruttibilità dell'URSS, essi erano consapevoli che la riunificazione in un unico paese di 15 repubbliche con passato, identità e aspirazioni molto diverse godeva di un equilibrio precario.
I territori dell'URSS furono progettati nell'interesse dell'Impero, ma a scapito delle nazioni, secondo il principio di un dedalo di confini che avrebbe reso assai complicata la separazione dei territori storici e rappresentava da ostacolo alla loro eventuale costituzione in stati autonomi.

1991: la popolazione dell’Alto-Karabakh rivendica la propria indipendenza
Con lo scioglimento dell’URSS, in base al diritto dei popoli all'autodeterminazione e per impedire che l'intera popolazione armena venisse massacrata, la popolazione dell’Alto-Karabakh reclamò la propria indipendenza.
Riparazione di un'ingiustizia storica, senso naturale della storia, istinto elementare di sopravvivenza, questi sono i termini che qualificano il gesto del popolo dell’Alto-Karabakh.
Il 10 dicembre 1991 si tenne dunque un referendum repubblicano nell’Alto-Karabakh alla presenza di osservatori internazionali, con una partecipazione dell'82,2% sul totale degli elettori, e il 99,89% dei partecipanti votò per l'indipendenza della Repubblica dell’Alto-Karabakh. Formalmente, il Karabakh lasciava l'URSS e non l'Azerbaigian, che a sua volta dichiarava la sua indipendenza, ma la separazione dell’Alto-Karabakh fu vissuta dall'Azerbaigian come una perdita territoriale, e non c'è mai stato un riconoscimento internazionale dello status dell’Alto-Karabakh, considerato un territorio autoproclamatosi tale. Era questa area grigia a livello giuridico che aveva mantenuto le ambizioni ai confini tra i due Paesi, anche se per 30 anni si era mantenuta una cattiva pace, sempre preferibile a una buona guerra, disseminata di qualche disordine ai confini.
Nelle parole dell'accademico Sacharov, premio Nobel per la pace nel 1975, “Per l'Azerbaigian, il Karabakh è una questione di ambizione. Per l'Armenia è una questione di vita o di morte”.

Oggi: le vere ragioni della guerra
Ma perché, oggi, un atteggiamento così bellicoso? La prosperità dell'Azerbaigian, il cui budget militare supera l'intero budget armeno, è basata sul petrolio. Numerosi sono i giacimenti sfruttati ai margini del Caspio. Ma l'interruzione dei trasporti internazionali a causa della pandemia di Covid-19 ha causato un drastico calo del prezzo al barile. Di conseguenza, l'Azerbaigian si prepara a vivere una delle peggiori crisi economiche e sociali della sua storia. Per porvi rimedio, l'attuale governo ha preferito portare al parossismo la sua retorica anti-armena, un classico metodo di diversione in tempi di crisi.
Inoltre, l'Azerbaigian è stato governato per 30 anni, di padre in figlio, dalla dittatura oligarchica del clan Aliev, mentre l'Armenia ha vissuto, due anni fa, una Rivoluzione di velluto, evento quasi miracoloso in quanto non ha causato alcun morto, risultando nella creazione di un regime veramente democratico, guidato dal primo ministro Nikol Pachinian.
La paura di un contagio è grande in Azerbaijan, e sarebbe un vero disastro se il vento di libertà, che potrebbe spazzare l'attuale regime di Baku, provenisse per di più da un campo nemico.
Ma il conflitto tra Azerbaijan e Armenia è una vera polveriera, capace di innescare una terza guerra mondiale. Perché qui entrano in gioco gli interessi delle grandi potenze, a cominciare dalla Turchia, alla quale bisogna riconoscere non solo una forma di coerenza nell'approccio, ma anche il coraggio di avanzare a volto scoperto. E sarebbe sbagliato credere che questo sia solo uno spettro del passato. La Turchia sta innovando.

Il progetto turco: riconquista e molteplici alleanze

Oggi, il piano a medio e lungo termine della Turchia non è solo quello di riconquistare l'Impero Ottomano.
Il progetto turco va ben oltre, anche geograficamente: unire sotto la sua egida tutte le popolazioni orientali di lingua turca. E sono molte, a cominciare da tutta l'Asia centrale, ad eccezione del Tagikistan, ossia Kazakistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Kirghizistan.
Non si tratta di mera speculazione: da diversi anni gli ufficiali di questi paesi vengono addestrati direttamente dalle forze armate turche, così pure si è notato un attivo revival dell'islamismo politico sotto la guida di imam turchi. Accademie militari e scuole coraniche fioriscono ovunque in queste regioni, finanziate dal governo di Erdogan.
Il 29 ottobre, data simbolica che commemora l'istituzione della Repubblica turca, è previsto un incontro tra la Turchia e i paesi dell'Asia centrale.
Ma non si tratta solo di questi Stati. La Russia comprende vasti territori popolati da gruppi di lingua turca, soprattutto l’Altai, e la regione autonoma dello Xinjiang in Cina ha tra 13 e 15.000.000 di Uiguri, musulmani di lingua turca severamente repressi dal regime cinese.
Se si costituisse un impero pan-turco ai confini della Cina, ciò costituirebbe agli occhi di quest'ultima una vera minaccia territoriale, accentuata dai "nemici interni" Uiguri che non mancherebbero di ribellarsi, non avendo nulla da perdere. Sarebbe una situazione senza precedenti e un reale pericolo per la Cina, il che non dispiacerebbe agli Stati Uniti.
Trovando in Azerbaijan un fornitore di combustibili fossili e soprattutto una possibile base militare nella prospettiva di un conflitto con l'Iran, Israele vende armi all'Azerbaijan, nonostante l'indignazione di parte dell'opinione pubblica e del mondo politico israeliano, e la posizione assunta da una parte sensibile della comunità ebraica che percepisce come uno scandalo etico la possibile complicità in un nuovo genocidio.
L'Armenia è l'unico ostacolo ad una perfetta continuità territoriale
di un vasto impero di 200/250 milioni di abitanti, di cui la Turchia sarebbe il cuore e il cervello, e le cui fondamenta sono già tracciate in profondità. Ma una tale configurazione sbilancerebbe la situazione con l'Iran privandolo del primato per l'influenza islamica sulla regione. Ciò porterebbe anche a un vero e proprio conflitto con il mondo arabo, come sembrano già prefigurare le spaventose relazioni tra i paesi del Golfo e l'Egitto, da un lato, e la Turchia dall'altro.
Il conflitto in Artsakh fa risuonare l’eco dei combattimenti fino all'India, che si risveglia e si impegna a favore dell'Armenia perché il Pakistan è sostenuto attivamente dall'Azerbaigian e perché gli jihadisti pakistani sono utilizzati dalla Turchia sul fronte armeno.
E sono soprattutto la Cina e la Russia a misurare la portata di ciò che le aspetta.
La Russia in particolare, che ha già sfiorato una 14a guerra russo-turca in Siria, non può permettersi nuovi focolai di conflitto nel Caucaso, che potrebbero farle perdere, nel peggiore dei casi, un terzo dei suoi territori, fino alla Siberia. La recente incursione di jihadisti, penetrati in Cecenia e poi "neutralizzati", dimostra che si tratta di una realtà di terreno e non di un pericolo ipotetico.

Armeni al fronte, pronti a morire

Ci sono pochi attentatori suicidi tra gli Armeni, nessun kamikaze. Gli Armeni amano la vita, adorano la vita. Partono però per il fronte, numerosi, volontari, impressa sui loro volti la serietà di una scelta ponderata. Sono pronti a morire. Padri di famiglia benestanti, emigrati in vari paesi, lasciano lavoro e famiglia e raggiungono il fronte. La loro motivazione? “Non vogliamo lasciare sole tutte queste giovani reclute. Hanno una vita da vivere, famiglie da fondare. Noi abbiamo già vissuto. "Sono uomini di 30 o 40 anni che lo dicono. O cinquantenni, o anche pensionati, che rinunciano a tutto e vengono. Che pagano il biglietto aereo - sola andata - di tasca propria. Perché è un'emergenza.
Altri raccolgono tutto quello che possono, versano dei doni al Fondo Armeno. Un uomo ha offerto 20 anni di risparmi destinati all'acquisto di una casa. Un famoso musicista vende tutti i suoi strumenti: “Non ci sarà più musica finché durerà la guerra. "
Quale direttore potrebbe imporre il silenzio a questa musica infernale?

Sto guardando un video su Internet. Giovani soldati che cantano, si incoraggiano a vicenda. Dedicano la loro canzone - non molto ordinata - alle loro fidanzate, alle loro madri, alle nonne, alle sorelle. “Non agli uomini - se puoi combattere e non ci sei, non ti dedicheremo questa canzone. " C'è nei loro occhi, nonostante la bonomia giocosa imposta dal cameratismo, un'intensità infinitamente malinconica che lascia una strana sensazione. Penso a Erode in Salomé, di Richard Strauss, che sente un fruscio di ali e sente una corrente d'aria gelida, evocata dall'orchestra.
Questi uomini sono abbelliti, come santificati, dalla vicinanza della morte. Lo sanno loro stessi. Essa ci guarda dallo schermo come loro ci guardano. La morte è un rischio intrinseco della vita, ma la loro passa troppo velocemente e le ali dell'angelo sfarfallano prima che il loro canto finisca. Quale direttore d'orchestra potrebbe imporre il silenzio a questa musica infernale? Perché le madri piangono a entrambi i lati della frontiera, ma non sono solo le loro lacrime che potrebbero fermare questa follia egemonica, né placare un orgoglio contrastato, pronto a sacrificare i propri figli per una mela avvelenata stalinista.

26 ottobre 2020

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