«Siamo arrivate in Italia pensando che qui, per le donne, ci fosse sicurezza. Ma alcuni episodi ci lasciano senza parole: non sappiamo a chi rivolgerci o cosa fare in questi casi». Batool Haidari, psicologa e attivista afghana, punta il dito sulle difficoltà che le rifugiate devono affrontare nel paese d’accoglienza, intervenendo alla prima seduta del Tribunale delle donne per le donne in migrazione. Durante l’iniziativa, che si è svolta il 27 maggio a Roma alla Casa Internazionale delle donne, hanno preso la parola alcune richiedenti asilo e rifugiate afghane che hanno condiviso le proprie testimonianze. Il progetto, sostenuto da diverse associazioni come Lesconfinate, Binario 15, Cisda, Nove onlus e Differenza donna, mira a costruire una riflessione partecipata su nuove forme di riparazione sociale e politica per le donne migranti, ispirandosi a esperienze come quella del Tribunale delle donne di Sarajevo.
Una riflessione di cui Batool Haidari riconosce l’importanza, ma che allo stesso tempo non può essere sufficiente. «Potete organizzare decine di incontri di tribunali per le donne, ma nella nostra cultura chi ha subito una violenza non parla. Non ci è stato insegnato a denunciare». Haidari ha cominciato a fare attivismo in Afghanistan tanti anni fa e conosce bene le problematiche e le difficoltà a cui possono andare incontro le donne e altri soggetti più fragili. Nella sua attività di psicologa a Kabul si è occupata anche di pedofilia, identità di genere e problemi legati alla sessualità. Nel suo paese – dice - «alle donne viene inculcata una “cultura del silenzio”», che rende difficile riconoscere la violenza e reagire.
A causa del suo impegno per le donne e per la sua attività professionale di psicologa e sessuologa, Haidari ha dovuto lasciare l’Afghanistan dopo il ritorno dei talebani il 15 agosto del 2021. Ha ricevuto minacce e telefonate anonime per essersi occupata della comunità LGBT+ e aver sostenuto i loro diritti. Insieme ad altre militanti, Haidari faceva parte del gruppo Donne per i diritti umani di Kabul, che organizzava le proteste contro il nuovo governo talebano. Per proteggere sé stessa e la sua famiglia la psicologa ha deciso di chiedere aiuto alla giornalista italiana Maria Grazia Mazzola. Insieme a lei, Haidari è arrivata prima in Pakistan, dove ha vissuto nascosta per qualche tempo, fino a quando ha ottenuto un visto per l’Italia.
Anche da lontano Batool Haidari continua a battersi per le persone rimaste in Afghanistan e cerca di portare avanti il suo lavoro di consulente su Internet, nonostante l’accesso alla rete sia spesso difficile in alcune zone del Paese. Il suo ruolo è anche quello di sensibilizzare e fare informazione sulle costanti violazioni dei diritti subite dalle donne afghane e al tempo stesso di aiutare le persone che sono riuscite a scappare. Il problema è che anche all’estero queste donne già traumatizzate possono subire violenza. Anche in Italia - racconta Haidari - alcune studentesse afghane sono state vittime di battute o molestie per strada, e quando succede non sanno a chi rivolgersi per chiedere aiuto. «Le aggressioni verbali e le violenze contro le donne afghane vanno affrontate. È importante trovare dei meccanismi che incoraggino chi subisce a parlare e agire con forza per risolvere questo problema».
Ora che vive in Italia Haidari ha sviluppato una consapevolezza anche sulle criticità del sistema di accoglienza, che è compromesso, oltre che da carenze strutturali, da tentativi di speculare sulle difficoltà e sui bisogni delle persone migranti. «Alcuni rifugiati afghani hanno la sensazione di essere caduti nella rete di certe associazioni che hanno sfruttato la legislazione italiana o europea per garantirsi un ritorno economico». Molte persone e organizzazioni svolgono un lavoro importantissimo, ma non tutte sono ben intenzionate e la critica di Haidari dovrebbe sollevare l’attenzione su una problematica finora poco discussa.
Le persone che chiedono asilo in un altro paese, spesso hanno aspettative molto diverse sul proprio destino rispetto a quello che si trovano ad affrontare una volta arrivate. Tutto ciò sta portando i rifugiati afghani a perdere fiducia nella possibilità di un miglioramento delle proprie condizioni di vita in Italia. La frustrazione colpisce in particolare le persone più istruite e i professionisti, che speravano di poter continuare a svolgere il proprio mestiere fuori dall’Afghanistan. «Ci sono tantissime risorse umane che possono dare tanto all’Italia, ma queste persone stanno cominciando a pensare di dover spostarsi altrove o addirittura di ritornare nel proprio paese», perché qui non stanno trovando quello che si aspettavano.