Povertà estrema per una parte dei 215 milioni di abitanti, disoccupazione, violenze delle milizie paramilitari, ricostruzione del sistema sanitario pubblico, deforestazione dell’Amazzonia… Sono numerose e gigantesche le sfide che il neoeletto presidente Luiz Inacio Lula da Silva (Partito dei Lavoratori, PT) dovrà affrontare nei prossimi quattro anni, dopo aver vinto il ballottaggio di domenica 30 ottobre contro l’avversario, il presidente uscente Jair Bolsonaro (Partito Liberale, PL). Lula, infatti, ha ottenuto il 50,9% dei voti contro il 49,1% del candidato di estrema destra. Lo sconfitto non ha riconosciuto la vittoria di Lula, ma dopo due giorni ha fatto sapere che (nonostante i blocchi stradali dei suoi sostenitori) avrebbe seguito la Costituzione e avrebbe consentito il passaggio dei poteri al neoeletto. Che potrà entrare nel ‘Palacio do Planalto’, sede della Presidenza della Repubblica del Brasile, dal primo gennaio 2023. Al primo turno delle elezioni presidenziali, il 2 ottobre scorso, Lula è stato il candidato più votato, con il 48,4% dei voti, Bolsonaro è arrivato secondo con il 43,2%. Dietro ai due leader, i due candidati meglio posizionati (appartenenti al centro dello spettro politico), Simone Tebet, del Movimento Democratico Brasiliano (4%) e Ciro Gomes, del Partito Democratico Laburista (3%), hanno dato il loro sostegno a Lula pochi giorni dopo il voto di inizio ottobre.
Lula, 77 anni, è al suo terzo mandato dopo i primi due, dal 2003 al 2011. Nel 2018 si trovava in posizione di incandidabilità, a seguito della sentenza per corruzione e riciclaggio legata agli appalti pubblici ceduti al colosso nazionale Petrobras. L’allora candidato del PT, Fernando Haddad, non aveva potuto fare molto per colmare in pochi mesi il vuoto lasciato da una figura come Lula. Infatti, pur presentandosi da outsider, un deputato ed ex-militare con la fama di “Donald Trump dei tropici” lo aveva sconfitto. Nei 27 stati della Repubblica Federale era decollato il fenomeno politico Bolsonaro. Oggi il neoeletto presidente si trova di fronte un Brasile nettamente diviso e polarizzato. La campagna elettorale si è in gran parte giocata nella contrapposizione ideologica dei due leader. Il dibattito sui programmi è rimasto senza risposte convincenti per i problemi più pressanti del Brasile di oggi. Dati poco incoraggianti per Lula anche sul versante del Congresso Nazionale di Brasilia, frammentato in una ventina di partiti, di orientamento conservatore, e con molti sostenitori di Bolsonaro. Nei prossimi mesi il clima di tensione potrà forse essere stemperato dalla scelta, da parte di Lula, di un uomo di centro come vicepresidente: Geraldo Alckmin (Partito della Social Democrazia Brasiliana, PSDB), avversario dello stesso Lula nelle presidenziali del 2006, ex governatore di San Paolo. Una mossa, in vista del voto, per strizzare l’occhio all’elettorato moderato.
Pandemia e fake news
L’eredità lasciata da Bolsonaro è pesante. In diversi ambiti della vita pubblica. A cominciare dalla sanità. La pandemia del Covid è stata “gestita” di fatto negandone l’esistenza. Dalle stime ufficiali (non si sa fino a che punto attendibili) sappiamo che ci sono stati quasi 700 mila morti e oltre 15 milioni di contagiati, soprattutto tra gli indigeni e gli afro-discendenti. Secondo la coalizione di Ong Alerta Group, sino alla fine del 2021, circa 120.000 decessi avrebbero potuto essere evitati, se il governo non si fosse ostinato a ignorare le evidenze scientifiche e a non coordinare le strategie necessarie per fronteggiare la crisi. Una delle misure adottate per far fronte alla pandemia è stata quella di lasciare a casa da scuola, per oltre un anno, 35 milioni di bambini; per la gran parte senza alcun supporto di didattica a distanza (e pare assurdo che ciò sia accaduto nel 2021, a cento anni dalla nascita di Paulo Freire, educatore brasiliano di fama mondiale, la cui pedagogia ha permesso a tanti di alfabetizzarsi diventando protagonisti delle sorti del proprio paese). Dal ‘Palacio do Planalto’ l’ex militare a capo del paese ha indebolito il già claudicante sistema sanitario pubblico, il SUS (‘Sistema Unico de Saùde’), giudicato un peso per le finanze dello stato, nel quadro di quella idolatria neoliberista, dove conta solo il mercato e il successo individuale.
Intanto la disinformazione gode di ottima salute nella Repubblica Federale. È stato fatto un utilizzo massiccio di fake news, che hanno trovato facile accoglienza in una società segnata da povertà, disagi, mancanza di prospettive per i propri figli. Nella narrazione di Bolsonaro, il “nemico interno” è rappresentato dalla sinistra e da Lula; quello “esterno” dall’Europa comunitaria, fondata sui diritti umani e la trasparenza politica. Le fake news, con l’ausilio degli immancabili social network, hanno dosato di volta in volta gli argomenti dell’intolleranza sociale, razzista, religiosa e sessista. Sostiene un analista: “Una popolazione infragilita si lascia sedurre facilmente attraverso la manipolazione dell’informazione, così avvilimento e disperazione quotidiani erodono ogni giorno i fondamenti della democrazia”. Sono impressionanti i dati raccolti da Latinobarómetro, secondo cui il 40% dei brasiliani è convinto della democrazia, mentre al 36% non farebbe differenza vivere sotto una dittatura, che l’11% preferirebbe. Anche su questo terreno Lula avrà vita molto dura. I troll non andranno in pausa. Siamo – purtroppo, non solo in Brasile – in piena epoca di “post-truth” (post-verità), eletta parola internazionale dell’anno per il 2016 dall’Oxford English Dictionary, con riferimento alle circostanze in cui "i fatti obiettivi sono meno influenti sull'opinione pubblica rispetto agli appelli emotivi e alle convinzioni personali”.
Povertà e sussidi
Nel paese sudamericano, però, ci sono nodi antichi, precedenti all’era Bolsonaro. Più del 50% della sua popolazione, per esempio, vive senza un’adeguata ed efficiente rete fognaria o installazione regolare di energia elettrica. È la mancanza cronica di quello che in portoghese si chiama “saneamento basico”. Spiega José Graziano, ex segretario Generale della FAO: “Da quando è iniziata la pandemia di Coronavirus, nel 2020, il potere di acquisto di molte famiglie brasiliane è crollato. Non si trova lavoro, piccole e medie imprese e negozi chiudono i battenti. Il riso, i fagioli e la carne, che sono gli alimenti base del piatto brasiliano, sono diventati beni preziosi; il loro prezzo è schizzato alle stelle con aumenti anche del 60 e 70%. Circa 50 milioni di brasiliani si trovano in situazioni disagiate, e 20 milioni sono in stato di estrema povertà”. Secondo i dati di una recente ricerca della Fondazione “Getulio Vargas”, “il numero di brasiliani che vivono sotto la soglia della povertà è triplicato negli ultimi due anni”. Il parziale rimbalzo economico a livello nazionale, dopo l’uscita dalla fase pandemica, con dati che indicano una crescita del PIL dell’1,7% su base annua, avvantaggia solo una fascia ristretta della popolazione. L’inflazione nel primo semestre 2022 è stata del 12% (in rialzo già dal 2021, come nel resto del mondo, dopo la pandemia), per poi scendere di circa 3 punti alla vigilia delle elezioni grazie ai sussidi sociali e ai tagli al prezzo del carburante. Nei primi mesi del 2023 vedremo come si muoverà il neopresidente con il capitolo sussidi. Nelle settimane precedenti alle elezioni Bolsonaro ha stanziato 7,5 miliardi di dollari per aumentare in chiave elettorale “Auxilio Brasil”, il sussidio mensile che il governo eroga a 21 milioni di famiglie (53 milioni di persone), portandolo a 600 reais (circa 100 euro). In realtà “Auxilio Brasil” è la copia, impoverita di alcuni meccanismi di controllo che ne garantivano l’impatto sociale e l’efficacia nelle famiglie più povere con figli, del piano sociale “Bolsa Familia”, creato dal primo governo Lula, durato 18 anni, finché Bolsonaro non l’ha tolto. Il programma di Lula faceva dipendere l’erogazione del sussidio dall’effettiva frequentazione della scuola dei bambini delle famiglie assistite e dalla disponibilità ad accedere alle cure mediche di base.
11 milioni di persone nelle favelas
La situazione più critica si trova nelle favelas, che sorgono nelle periferie delle grandi metropoli. Sono presenti a Rio de Janeiro, Belo Horizonte, San Paolo, Recife, Olinda e in altre città. Secondo il Brazilian Institute of Geography and Statistics, nelle favelas brasiliane vivono più di 11 milioni di persone. Le favelas sono delle autentiche città, composte prevalentemente da baracche. Non sono riconosciute dallo Stato e i servizi come energia elettrica, acqua e fognature non sono garantiti. Alcune, come la favela di Moinho a San Paolo, si trovano nel pieno centro della città e sono sotto la pressione delle aziende costruttrici che puntano a questi terreni per creare nuovi quartieri residenziali, ma gli abitanti non hanno certificati di proprietà delle loro case. Gli abitanti delle favelas, letteralmente, non esistono. Molti non hanno un documento d’identità e neanche un indirizzo. Nelle favelas però vigono “regole” ferree: da un lato ci sono i narcotrafficanti che si contendono il controllo delle zone e cercano di imporre le proprie “leggi” alla popolazione, dall’altro c’è la polizia che non risparmia pestaggi e arresti sommari. Il Brasile è il secondo paese al mondo per consumo di cocaina e il primo per i surrogati di questa sostanza. Il porto di Santos, a “soli” 70 chilometri dalla megalopoli di San Paolo, il maggiore del Brasile e del Sudamerica, è il più importante crocevia per il commercio di droga. Spiega l’analista politica e ricercatrice Kristina Hinz: “L’alleanza tra narcotrafficanti, chiese evangeliche pentecostali e gruppi paramilitari unisce il modus operandi del narcotraffico, che cerca l’espansione nei mercati e nei territori, con un fondamentalismo religioso che vede i non evangelici come seguaci del diavolo”. Anche se nel paese la maggior parte della popolazione è di religione cattolica, la crescita delle chiese evangeliche pentecostali è stata robusta negli ultimi anni. Queste congregazioni religiose condividono con l’estrema destra i valori ultra-conservatori, nonché la demonizzazione della sinistra. La “teologia della prosperità” predicata dal movimento esaspera l’individualismo e abbatte il senso di solidarietà; non conta l’impegno sociale e politico. Da parte loro, le forze di polizia regolari percepiscono le milizie paramilitari come una loro estensione perché composte prevalentemente da ex militari ed ex poliziotti. Uno scenario sconfortante, che riflette le scelte fatte nei palazzi del potere di Brasilia. Non a caso la squadra di governo di Bolsonaro ha un numero di militari ed ex militari senza precedenti, e il presidente uscente ha sempre difeso gli agenti di polizia nei numerosi casi di denunce di violenza.
Tra le grandi economie mondiali. Il legame con la Cina
È evidente come la strada per Lula si presenti decisamente in salita. Secondo alcuni analisti il Brasile è al terzo posto in America Latina per diseguaglianze (dopo Honduras e Colombia). Il Brasile è tutt’altro che un paese povero. Con un PIL di oltre 2.000 miliardi di dollari Usa, è al settimo posto tra le maggiori economie mondiali, e si trova in sesta posizione per produzione agricola, con un valore di 82 miliardi di dollari Usa. Secondo i dati della Banca Mondiale, il paese della samba è il primo produttore al mondo di caffè e di oli di semi, il secondo produttore di zucchero (dietro l’India); si trova al terzo gradino per la produzione di carne ed è nel novero dei primi sei per frutta, cereali e cotone. Niente male anche per il petrolio: al nono posto (circa 3 milioni di barili al giorno), dopo l’Iran e prima del Kuwait. Brasilia fa parte del gruppo BRICS (insieme a Russia, India, Cina e Sud Africa), ed è un membro fondamentale del Mercosur, il mercato comune di libero scambio dell’America Meridionale. La comunità internazionale osserverà con attenzione il posizionamento del nuovo presidente nello scacchiere planetario. Da un lato, Bolsonaro ha dimostrato in più occasioni la sua vicinanza alla Russia di Putin, continuando a importare fertilizzante russo nonostante le sanzioni internazionali. Ma anche Lula è stato ambiguo sulla guerra, colpevolizzando il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj. Entrambi i leader hanno ottime relazioni con la Cina. Pechino è il maggior cliente delle esportazioni brasiliane, ed è il maggior fornitore di beni e servizi, prima di Usa, Argentina e Germania.
Deforestazione e omicidi in Amazzonia
L’altro difficile nodo che dovrà affrontare Lula riguarda l’ambiente e la tutela delle popolazioni indigene. L’amministrazione di estrema destra di Brasilia ha ridotto al minimo le tutele ecologiche e i divieti di trivellazione, permettendo lo sfruttamento economico anche di aree protette e aumentando in modo notevole la deforestazione dell’Amazzonia. Il “polmone del pianeta” è esteso per 5,5 milioni di chilometri quadrati (18 volte l’Italia), produce il 20% dell’ossigeno e contiene il 10% della biodiversità della Terra. Tocca nove stati dell’America Meridionale e per il 65% occupa il territorio brasiliano. Il presidente uscente ha tagliato i fondi e ha stravolto il ruolo dell'IBAMA, l'Istituto brasiliano per l'ambiente e le risorse naturali rinnovabili. Stessa sorte è toccata alla Fondazione Nazionale dell’Indio (FUNAI), l’organo del governo preposto all’elaborazione delle politiche e alla protezione delle terre abitate dalle comunità indigene. Gli incendi hanno devastato anche quest’anno le terre dell’Amazzonia, e l’IBAMA ha dato l’autorizzazione a ripristinare la contestatissima BR 319, strada che collega Porto Velgo a Manaus attraversando l’immensa foresta pluviale.
Secondo i dati di Global Witness, Ong internazionale che lavora per rompere i legami tra sfruttamento delle risorse naturali, conflitti, povertà, corruzione e violazioni dei diritti umani in tutto il mondo, oggi il Brasile guida la classifica mondiale degli omicidi legati ai diritti sulla terra e alle questioni ambientali, la maggior parte dei quali avvenuti in Amazzonia. Tra il 2012 e il 2020 nel paese sono stati registrati 317 omicidi di questo tipo. Raramente le notizie di questi omicidi oltrepassano i confini brasiliani. È il caso dell’assassinio di Dom Phillips, 57enne storico collaboratore di The Guardian, che stava facendo ricerche per un libro sugli sforzi di conservazione in Amazzonia; con lui è stato freddato anche Bruno Pereira, 41enne ex funzionario del FUNAI, a suo tempo licenziato. Secondo il Financial Times, nello stato di Amazonas, dove sono stati uccisi Phillips e Pereira, il numero di omicidi nel corso del 2021 è aumentato del 50% rispetto al 2020. I due ricercatori sono stati assassinati nella Valle del Javari, che ha la più grande concentrazione al mondo di tribù non contattate, ed è una delle regioni più sensibili dell'Amazzonia brasiliana. Oggi in Brasile vivono circa 300 tribù, per un totale di 900 persone. I vari governi, nel corso degli anni, hanno riconosciuto alla popolazione indigena 690 “territori protetti”, quasi tutti in Amazzonia.
Antonio Barbangelo, giornalista