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Il caso Xiao Huamei e la tratta di esseri umani nella Cina rurale

di Lucrezia Goldin, China Files

“Questo mondo non mi vuole più”. Il grido soffocato di Xiao Huamei, la “donna incatenata di Xuzhou”, ha tormentato per mesi la coscienza dell’opinione pubblica nella Repubblica Popolare Cinese, diventando il tragico simbolo della lotta contro il traffico di donne e bambini nel paese. Pratica che ancora sopravvive nei meandri della Cina rurale, lontano dallo sguardo statale e spesso nella complicità delle comunità locali, il cosiddetto guaimai (拐卖, la tratta di esseri umani) non trova adeguato riscontro nella normativa cinese, carente rispetto ai bisogni delle vittime e indulgente nei confronti dei carnefici. Ma il potere di risonanza dei social media sta aiutando a dissolvere la coltre di fumo che avvolge questo retaggio irrisolto, conseguenza dell’incontro tra società patriarcale e divario demografico, alimentando un dibattito sulla disparità di genere in Cina e stimolando i legislatori a proporre misure più drastiche per affrontare il problema del traffico per scopi matrimoniali.

Xiao Huamei, la donna incatenata dal marito

Vestita di stracci. Malnutrita. Una catena alla gola. Le immagini della donna oggi conosciuta come Xiao Huamei hanno fatto il giro del mondo dopo che un noto vlogger cinese ha documentato le sue condizioni sulla piattaforma video Kuaishou. Trovata in stato confusionale in una baracca malandata nella contea di Fengxian, a Xuzhou, nella provincia orientale del Jiangsu, la donna presentava evidenti segni di abuso fisico oltre che a cenni di un disturbo mentale, poi diagnosticato come schizofrenia. La reazione dei social cinesi è stata dirompente. Per settimane, le pagine di Weibo, Wechat e Douyin hanno denunciato la situazione della “madre di Xuzhou” e chiesto trasparenza al governo locale, che da una prima indagine non aveva riscontrato nessun tipo di abuso. Solamente dopo le continue pressioni dei leoni da tastiera, le autorità hanno approfondito le ricerche e trovato che la donna era stata venduta al marito Dong Hua per 5mila yuan nel 1998.

Come nota Maya Koetse di Whatsonweibo, la vicenda “donna incatenata” è inoltre diventata un’occasione per il web della Rpc di parlare di temi sociali di più ampio respiro, a partire dalla condizione delle donne cinesi e delle “catene sistemiche e strutturali in cui sono imprigionate”, come le ha chiamate la sciatrice olimpica Eileen Gu. E ancora oggi i commenti e le vignette di denuncia da parte degli utenti cinesi continuano a sfidare la censura.

Ma l’orrore di Xiao Huamei che ha infiammato il web cinese ha portato a galla altre vicende, vecchie e nuove. Tra queste, la storia delle tre sorelle Ma, spose bambine di Wushan vendute da uno zio quando avevano 12 anni. Una di loro, Ma Panyan aveva riempito brevemente le pagine dei giornali nel 2017, quando dopo una faticosa battaglia legale era riuscita a ottenere il divorzio dall’uomo che l’aveva comprata 15 anni prima per 7mila yuan e 250kg di riso. Come lei anche Tang Xiaoyu, donna dello Shaanxi ritrovata lo scorso febbraio rinchiusa in una gabbia nella città di Yulin, sarebbe stata vittima del traffico a scopo matrimoniale. Il marito Li Limin, influencer rurale del web cinese, si era vantato con i suoi seguaci di avere “raccattato la moglie per strada” e aver “falsificato il suo certificato di residenza”. Anche qui, l’indignazione sui social è servita da movente per l’intervento delle autorità, che grazie a un test del Dna hanno ipotizzato la donna possa essere in realtà Wang Guohong, studentessa della provincia di Qinghai scomparsa nel 2009 mentre si recava a scuola.

Per la legge cinese chi compra spose rischia solo tre anni

Non si tratta di casi isolati. Solo nel 2019 le denunce per traffico di donne in Cina secondo il China Statistical Yearbook ammontavano a 4571 casi. Ma secondo diversi analisti si tratta di una cifra che non tiene conto degli episodi protetti dall’omertà familiare e dalla lentezza della burocrazia. Senza contare la difficoltà di sradicare il guaimai in quanto fenomeno legato al divario demografico creato in Cina dalla politica del figlio unico. Troppi uomini. Poche donne. Specie nelle zone rurali. Uno studio del professore della Tsinghua University, Huang Zhongliang, rivela a proposito che tra il 2000 e il 2017 ci sono stati 1700 casi registrati di donne rapite e vendute per scopi matrimoniali, tutte di età compresa tra i 14 e i 30 anni. Gli “acquirenti” invece, sarebbero per lo più uomini con un basso grado di istruzione provenienti dalle zone rurali della Cina. Come indicato nell’ultimo report del ministero della Sicurezza Pubblica cinese poi, la maggior parte delle vittime della tratta sono donne con problemi mentali nate in famiglie abbienti, oppure migranti in arrivo dal Sud-Est asiatico.

A livello legale in Cina i matrimoni infantili sono vietati dal 1950, ma i casi di tratta di donne e bambini per scopo matrimoniale rimangono alti. E soprattutto, la pena per chi compra non è commisurata al crimine. Secondo la normativa vigente in Cina, i trafficanti rischiano da 5 anni all’ergastolo fino alla pena di morte. Il destinatario della vittima del traffico invece, secondo un emendamento del 1997, rischia fino a un massimo di tre anni (al contrario, per il traffico illegittimo una specie animale in via di estinzione è previsto l’ergastolo). E c’è di più. Nel caso non ci siano evidenti segni di maltrattamento o abuso della vittima, la sentenza può risultare mitigata. Nessuna indicazione nel sistema legislativo cinese è invece destinata al recupero e al risarcimento delle vittime della tratta. Così come non sono previste soluzioni per gli abusi sessuali che seguono al matrimonio forzato.

L’attenzione mediatica riscossa dal tema negli ultimi mesi potrebbe però rivelarsi un punto di svolta. In un discorso in occasione della Conferenza Politica Consultiva del Popolo lo scorso marzo, il premier Li Keqiang ha dichiarato che il governo “reprimerà severamente il crimine di rapimento e traffico di donne e bambini e proteggerà fermamente i loro legittimi diritti e interessi”. Un impegno riflesso nella campagna lanciata lo stesso mese dal ministero della Sicurezza Pubblica con il motto di “un milione di poliziotti che entrano in un migliaio di case”. Un rastrellare a tappeto le comunità rurali della Cina per sventare quell’omertà tradizionalista che ancora nasconde storie di abusi e violenza. Secondo gli obiettivi della campagna, la chiave per risolvere il problema del traffico di esseri umani non starebbe nell’inasprirsi delle pene, ma nello “stabilire e migliorare il meccanismo di segnalazione dei crimini”. E in questo senso il mondo del web ha fatto da tramite, rendendo impossibile per il governo centrale ignorare lo sferragliare delle catene dell’oppressione che si è propagato per tutta la “civiltà digitale”.

Lucrezia Goldin, autrice China Files

11 maggio 2022

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