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​Il massacro di Lovešice

267 vittime colpevoli solo di parlare tedesco

19 giugno 1945. La guerra è finita da ormai 6 settimane. Il convoglio di soldati guidati dal tenente Karol Pazúr, di ritorno in Slovacchia da una sfilata militare a Praga, causa intasamento delle linee ferroviarie è costretto a fermarsi a Lověšice u Přerova, un piccolo paesino della Moravia centrale a nord di Brno. Caso o destino volle che nella piccola stazione morava fosse rimasto bloccato un altro treno diretto verso Est composto da 80 vagoni di cui 6 riservati ai cittadini cecoslovacchi di etnia tedesca che stavano tornando nella Rutenia subcarpatica, all'epoca ancora parte della Cecoslovacchia.

Non appena arrivato, Pazúr cerca immediatamente il rappresentante del comitato nazionale locale (nei Paesi socialisti questi comitati svolgevano le funzioni del comune) Antonín Mikloš per chiedere, oltre a un lasciapassare per i suoi uomini, se non ci fosse “qualche collaborazionista o qualche tedesco” da consegnare ai soldati. Mikloš intuisce subito le intenzioni del tenente e gli risponde che nel Paese funzionano già i tribunali popolari, respingendo la sua richiesta. Ma Pazúr non si arrende. Nel pomeriggio torna da Mikloš pretendendo che gli metta a disposizione 15 uomini per scavare le fosse a 6 nazisti delle SS, chi si fosse rifiutato sarebbe stato fucilato sul posto.

E così, alle 9 di sera, 267 uomini, donne e bambini dei 6 vagoni vengono condotti sotto scorta militare su un poggio poco lontano dove gli uomini di Lověšice iniziarono a scavare una fossa comune. Dopo mezzanotte il plotone di esecuzione inizia a giustiziare, quattro alla volta, gli innocenti. La colpa? Solo quella di parlare tedesco. Alle quattro e mezzo del mattino erano tutti morti, nessuna pietà neanche per le donne e i bambini. I civili coprono i corpi con la terra.

Dopo due anni di silenzio, nel 1947 l'Assemblea nazionale delibera di indagare i peggiori crimini postbellici, citando espressamente i fatti di Lověšice. Due anni dopo, nel 1949, il tribunale militare condanna Karol Pazúr a sette anni e mezzo di carcere. Pazur fa ricorso ma il tribunale militare superiore aumenta la pena a 20 anni, definendolo “una macchia per la nazione” e un uomo “moralmente inferiore ma comunque sano di mente”. Una volta in galera Pazúr iniziò subito a fare la spia per la StB, la temuta polizia segreta cecoslovacca, per poi venir rilasciato nel 1952 a seguito dell'amnistia generale. Gli eventi di Lověšice così furono coperti da un silenzio omertoso, frutto della collaborazione di Pazúr con la polizia segreta, che gli permise di vivere una vita da tranquillo funzionario regionale dell'Unione dei combattenti antifascisti.

Gli storici raccontano che Pazúr fu membro della Guardia di Hlinka, un gruppo paramilitare slovacco che collaborò alla persecuzione degli ebrei, ma anche degli oppositori cechi e slovacchi, similmente al fratello Julius, che riuscì a fare "carriera" arrivando a diventare membro della divisione slovacca delle SS. Dopo aver trascorso del tempo in Germania, Pazúr tornò in Slovacchia nel 1944. Quando capì che la vittoria dell'Armata Rossa era inevitabile, cambiò prontamente casacca iscrivendosi al Partito comunista cecoslovacco, tacendo il proprio oscuro passato. In seguito entrò nella polizia segreta militare. Appare probabile, dunque, che il movente di tale insensato massacro, il peggiore della storia postbellica ceca, fosse quello di eliminare possibili testimoni del suo passato da collaborazionista dei nazisti.

La sua fine non è nota. Secondo una delle teorie Pazúr avrebbe abbandonato il Paese negli anni Ottanta; secondo altre sarebbe emigrato negli Stati Uniti, dove forse vive tuttora. Oppure qualche parente delle vittime ha deciso di farsi giustizia da solo. È il giornalista Tomáš Brolík a riportare questa storia agghiacciante, pubblicata recentemente sul settimanale ceco Respekt - uno dei media a diffusione nazionale più attento al tema dei crimini commessi dai cechi contro i propri concittadini colpevoli solo di esser nati nei Sudeti, terre da secoli abitate da popolazioni di etnia tedesca fino alla loro espulsione forzata dopo la guerra.

Andreas Pieralli, giornalista e traduttore

23 giugno 2015

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