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Iraq a una prova difficile, tra COVID-19 e instabilità politica

Intervista ad Andrea Plebani

L'Iraq sta vivendo una grave crisi politica, privo di una vera guida da dicembre, quando le manifestazioni di piazza costrinsero Adil Abd al-Mahdi a dimettersi con il resto del governo, accusato di essere corrotto, incapace di fornire i servizi essenziali alla popolazione e condizionato dall'Iran.
La scorsa settimana il Presidente della Repubblica irachena Barham Salih ha affidato l'incarico di formare un nuovo governo ad Adnan al-Zurfi, già funzionario dell'Autorità Provvisoria di Coalizione insediata dopo l'occupazione dell'Iraq e la destituzione di Saddam Hussein nel 2003.
Al-Zurfi non avrà un compito facile, mentre a Bagdad e nel resto del Paese cresce il timore per l'epidemia da COVID-19, che si è diffusa rapidamente nel confinante Iran e in molte altre nazioni. Il Presidente Salih ieri ha riunito gli esponenti del governo responsabili della salute pubblica, l’inviato delle Nazioni Unite in Iraq, Jeanine Hennis-Plasschaert e il rappresentante dell'Organizzazione mondiale della sanità in Iraq, Adham Ismail, sollecitando a "intensificare tutti gli sforzi per combattere l'epidemia di coronavirus”.

Ne parliamo con Andrea Plebani, ricercatore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore e dell'ISPI, autore del volume «La terra dei due fiumi allo specchio. Visioni alternative di Iraq dalla tarda epoca ottomana all'avvento dello «Stato islamico» (Casa editrice Rubbettino).

Come considera la designazione di al-Zurfi a nuovo premier?
Premetto che la mia è la visione di un osservatore esterno lontano e, in questi giorni, anche isolato per le misure di emergenza in vigore in Italia. Ma continuo a seguire l'evoluzione della crisi a Bagdad e vedo la recente nomina di Adnan al-Zurfi come una scommessa risultata dall’allineamento di una serie di forze politiche non necessariamente vicine tra loro. Pur godendo dell’appoggio di parte della componente curda, di parte della componente arabo-sunnita e di una parte della componente arabo-sciita, al-Zurfi è fortemente inviso alle fazioni più filo-iraniane. Non tanto perché ha la doppia cittadinanza, è cittadino iracheno e americano, ma perché è considerato vicino al vecchio primo ministro Haider al-Abadi, che era ritenuto particolarmente ostile alla presenza iraniana e vicino agli Stati Uniti.

Al-Zurfi è riuscito a contare anche sul sostegno di Muktada al-Sadr (esponente politico e religioso sciita, leader del Movimento Sadrista, presente in Parlamento) in passato molto attivo nei movimenti di protesta, dai quali però si è allontanato negli ultimi mesi. 
Il Paese, da mesi in uno stallo istituzionale, ora è in grave difficoltà per i timori per la diffusione del COVID-19. Nel vicino Iran il virus ha colpito duramente e si tema un’ondata simile in Iraq.
Questo ha influito sui movimenti di protesta, che da ottobre avevano investito il Paese per ottenere una completa ridefinizione del sistema e della classe politica e che ora sono stati in parte frenati dalla paura di contagio da virus in caso di assembramenti.

Il Ministero della Sanità ha confermato ieri 266 contagi, 23 decessi e 62 guariti dal virus (rapporto OCHA, Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, UN). Il coprifuoco di 24 ore e le restrizioni nei movimenti sono stati estesi nel territorio federale e nel Kurdistan iracheno: a Baghdad fino al 28 marzo, a Erbil fino all'1 aprile. Non sarà facile il compito del nuovo governo.
La prova con cui ora devono fare i conti gli iracheni è difficilissima.
Il dilagare del contagio complicherebbe ulteriormente le condizioni del Paese, già colpito da anni di guerra e dall’occupazione dello Stato Islamico. L’epidemia sarebbe un dramma, perché se l’Iran, che è uno Stato forte e centralizzato, sembra avere difficoltà a contrastare il virus, in Iraq sarebbe anche peggio. Ci sono zone del Paese, penso al nord, che forse potrebbero gestire la crisi. Ma se ricordiamo le difficoltà registrate a Bassora nel 2018 nell’affrontare la crisi sanitaria per l’inquinamento delle falde acquifere e le centinaia di vittime di allora, non voglio immaginare cosa provocherebbe il coronavirus in quelle zone. La speranza è che l'epidemia non dilaghi.

Ci sono organizzazioni internazionali umanitarie che potrebbero essere di aiuto?
Ci sono organizzazioni internazionali che hanno contribuito in maniera determinante alla realizzazione di campi profughi giocando un ruolo in quell’emergenza, in particolare al nord. Il problema è che ora non si tratta di gestire emergenze di questo tipo, le competenze richieste sono particolari. E il contesto di instabilità e insicurezza legato anche alla ripresa degli attacchi dall’estremismo islamico non aiuta.
Inoltre la congiuntura economica è negativa, perché il bilancio dipende quasi interamente dalle rendite petrolifere e in un momento di prezzi bassi del petrolio la capacità di spesa è minore rispetto al normale. A questo si aggiunge la minaccia americana non tanto velata di estendere le sanzioni (già imposte all’Iran) anche all’Iraq nel caso in cui non rispettasse i diktat di Washington.
L’Iraq dipende dall'Iran per l’approvvigionamento energetico e gli Usa lo hanno escluso dalle sanzioni applicate ai Paesi che hanno relazioni con l’Iran. Ma questa è un’esenzione temporanea soggetta a rinnovamento. Potrebbe diventare un’altra misura di pressione.

C'è il rischio che le sanzioni si spostino sull'Iraq?
Non si può escludere niente. Ci sono forti legami tra i due Paesi, un interscambio per 12 miliardi di dollari l’anno. Ci sono ogni anno più di 3 milioni di iracheni che vanno in Iran e un numero ancora più alto di iraniani che vanno in Iraq anche alla luce della presenza nel Paese di molti tra i luoghi più sacri della comunità sciita.
Per la prima volta nella storia della Repubblica islamica l'Iran ha chiesto un prestito al Fondo monetario internazionale (FMI) per avere le risorse per curare i cittadini.
Diversi analisti hanno inoltre avanzato l’ipotesi che i dati ufficiali dell'epidemia forniti da Teheran non siano conformi alla realtà. E l'Iran è la porta, il crocevia che collega l'Asia centrale, il subcontinente indiano e il Golfo Persico. Non bloccare il coronavirus in Iran vuol dire aprire le porte a un'epidemia incontrollabile.
È una questione di interesse strategico. L’amministrazione Usa punta a un cambio di regime. Ma la popolazione se ne rende conto e questa strategia rende gli Stati Uniti ancora più invisi a chi vive nella regione. Il problema delle sanzioni ora è diventato una questione di vita o di morte, prima non lo era, si trattava dell’economia, ora della sopravvivenza nell’area.


Andrea Plebani è ricercatore presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e Associate Research Fellow presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI). Dal 2019 è vice direttore scientifico del Centro Studi Internazionali di Geopolitica (Ce.St.In.Geo.) ed è stato membro della commissione incaricata da Palazzo Chigi di esaminare lo stato del fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista in Italia. Collabora al Master in Middle Eastern Studies (MiMES) e al Master in International Relations (MIR) dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (ASERI), oltre che al Master in International Human Research Management (IHRM).

Viviana Vestrucci, giornalista

25 marzo 2020

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