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La guerra di Pechino contro i giornalisti di Hong Kong

di Alessandra Colarizi, China Files

“Troppo giovani, semplici e anche un po’ naïf. Ma corrono più veloci dei reporter occidentali”. Così nell’ottobre del 2000 l’ex presidente cinese Jiang Zemin definiva i giornalisti di Hong Kong durante una movimentata conferenza stampa. Tre anni prima l’ex colonia britannica era tornata alla Cina sotto il motto “un paese, due sistemi”, modello che prometteva autonomia politica ed economica, nonché libertà civili inimmaginabili sulla terraferma. Due decadi dopo, il pensiero del leader in pensione è stato riformulato nello slogan “Keep calm and run like an Hong Kong journalist”. Stavolta non per alludere alle capacità professionali dei cronisti hongkonghesi. Nell’ex colonia britannica oggi i giornalisti corrono per sfuggire agli arresti, sempre più frequenti.

Lo sa bene l’editore e attivista Jimmy Lai, finito in manette nell’agosto 2020 con l’accusa di collusione con forze straniere. Il giornale da lui fondato, l’iconico Apple Daily, noto per il taglio pro-democrazia, è stato costretto a chiudere circa un anno più tardi. La cronologia degli eventi ha la sua importanza. Tutto è cominciato proprio nell’estate del 2020 con l’introduzione della controversa legge sulla sicurezza nazionale, imposta da Pechino dopo un anno di accese (talvolta violente) proteste contro la crescente ingerenza cinese nella regione amministrativa speciale. Da allora la normativa - che criminalizza qualsiasi atto di secessione, sedizione e sovversione contro la Cina, nonché la presunta collusione con entità straniere - è stata utilizzata per reprimere ogni forma di dissenso. Anche quando veicolato a mezzo stampa.

Secondo il governo centrale, gli organi d’informazione indipendenti diffondono fake news, aiutano i manifestanti radicali, incoraggiano alla violenza e incitano all'odio verso la Cina.

Con un effetto domino, negli ultimi mesi manifestanti, attivisti e persino personalità dello spettacolo sono stati arrestati per reati d’opinione. A dicembre, è toccato ai dirigenti di Stand News, altra piattaforma vicina al movimento democratico, sospettati di aver pubblicato “contenuti sediziosi”. Solo pochi giorni dopo, anche il noto quotidiano Citizen News ha annunciato la chiusura, citando i crescenti rischi per l'incolumità dei dipendenti. Molte altre piccole realtà attive ai tempi delle proteste pro-democrazia, come Rice Post, Mad Dog Daily e White Night, hanno cessato tutte le operazioni, mentre l'emittente di servizio pubblico RTHK, fino a poco tempo fa una fonte autorevole, è diventata il megafono del governo cinese.

I segnali della repressione erano nell’aria da tempo. Dobbiamo riavvolgere il nastro al 2018, quando il governo di Hong Kong rifiutò di rinnovare il visto a Victor Mallet, editor del Financial Times, formalizzando la prima espulsione di un corrispondente straniero dall’handover del 1997. Già tre anni prima, sul Guardian la giornalista Ilaria Maria Sala raccontava come, sebbene apparentemente tutto procedesse normalmente, l’interferenza cinese si stava insinuando con mezzi obliqui: attraverso l’autocensura e il controllo economico sull’editoria e gli organi di informazione. Quello stesso anno un'inchiesta del defunto Apple Daily mostrava come il Liaison Office - spesso utilizzando società fantasma - controllasse il 100% delle pubblicazioni delle tre principali catene di librerie a Hong Kong, in violazione dell’Art. 22 della mini costituzione locale che vieta l’ingerenza degli organi della Repubblica Popolare negli affari della regione amministrativa speciale. Retaggio, forse, di quella sovrapposizione dei ruoli che fino al 2000 ha visto l’agenzia di stampa cinese Xinhua a Hong Kong ricoprire la funzione di ufficio di collegamento.

Dopo aver assunto il controllo dell’economia locale, l’impressione è che ora - in barba agli impegni presi - Pechino voglia applicare al Porto Profumato il proprio modello di controllo sociale: quello della stabilità a tutti i costi. E i costi sono già evidenti. Sedate col pugno di ferro le manifestazioni pro-democrazia, le autorità hongkonghesi hanno cercato di ammansire la popolazione promettendo stimoli economici e nuove opportunità professionali per i giovani. Ma nell’ultimo anno, almeno 1.562 posti di lavoro sono andati persi e circa 65 organizzazioni, tra cui testate giornalistiche, sindacati, enti politici, gruppi religiosi e organizzazioni per la difesa dei diritti umani si sono sciolte. Le aziende mediatiche hanno pagato il prezzo più alto: circa il 71% dei reporter e dei dipendenti nel settore dell’informazione ha perso il lavoro nel 2021. C’è chi è finito a servire pollo fritto nei fast food, chi si è reinventato tassista. Chi invece medita il trasferimento all’estero. In un rapporto intitolato Lights Out, un paio di mesi fa l'International Federation of Journalists (IFJ) ha invitato i governi a offrire supporto e soluzioni di espatrio per i giornalisti in fuga dalla città, dopo aver rilevato "un chiaro e documentato esodo e la chiusura di organi di stampa, giornalisti e operatori dei media sia locali che internazionali”. Secondo un recente sondaggio dell'Hong Kong Foreign Correspondents Club, quasi la metà dei suoi membri aveva preso in considerazione l'idea di lasciare l’ex colonia britannica a causa dell’erosione della libertà di stampa, mentre l'84% credeva che l'ambiente di lavoro per il giornalismo fosse "cambiato in peggio". Una fuga di cervelli rischia di compromettere ulteriormente lo status internazionale del Porto Profumato.

C’è chi ha già fatto i bagagli: nel luglio 2020, poco dopo l’entrata in vigore della legge sulla sicurezza nazionale, il New York Times ha annunciato il trasferimento della sua sezione digitale a Seul. Secondo diverse indiscrezioni, anche Facebook, Twitter e Google stanno valutando se lasciare la città da quando nuove regole contro il doxxing minacciano pesanti sanzioni in caso di irregolarità nell’utilizzo delle informazioni personali.

Le autorità negano gli intenti repressivi. La libertà di stampa non è un diritto "assoluto, ma si basa su doveri e responsabilità legali", spiegava tempo fa il commissario di polizia Raymond Siu Chak-ye. Secondo Siu, gli ultimi arresti hanno lo scopo di punire i reati e non di sopprimere l’industria mediatica. A crederci però sono in pochi. Circa due mesi fa, rilasciando un comunicato congiunto, una ventina di paesi - compresi Stati uniti, Gran Bretagna, Giappone e Italia - hanno avvertito che "queste azioni minano ulteriormente la fiducia nella reputazione internazionale di Hong Kong attraverso la soppressione dei diritti umani, la libertà di parola e il libero flusso e lo scambio di opinioni e informazioni”. Per i firmatari, l’utilizzo della legge sulla sicurezza nazionale contro i mezzi di informazione è una chiara violazione del trattato siglato da Pechino e Londra nel 1984 per definire i termini del ritorno dell’isola alla madrepatria. Proprio di recente Xia Baolong, il funzionario cinese responsabile per Hong Kong, ha dichiarato che l’autonomia dell’ex colonia britannica potrebbe essere estesa anche 50 anni oltre la scadenza prevista dagli accordi per il 2047. Autonomia “con caratteristiche cinesi”, s’intende.

Alessandra Colarizi, direttrice editoriale China Files

16 marzo 2022

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