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La guerra di Yuliya, che identifica i corpi dei caduti ucraini

di Cristina Giudici

Yuliya Kozak ogni giorno aiuta qualcuno. Yuliya Kozak ogni notte pensa a come aiutare qualcun altro. Distribuisce gli aiuti che arrivano a singhiozzo da tutta l’Europa con carovane umanitarie nel Nord dell’Ucraina, accoglie chiunque nella chiesa battista dove è volontaria, allestisce campi per gli sfollati che arrivano dal sud-est nella sua città di Koresten: una cittadina della provincia di Zhytomyr nel nord dell’Ucraina che si trova a 70 chilometri dalla Bielorussia e a 160 da Kyiv. 

Consigliera comunale di Korosten, Yuliya è una giovane donna di 33 anni che si è offerta per aiutare i militari a svolgere un compito ingrato: identificare i corpi dei soldati della sua città -fra cui amici e conoscenti- e riportarli nei quartieri o nei villaggi della sua provincia per dare conforto alle madri, ai familiari dei soldati uccisi in combattimento. Ogni volta che arriva con il suo furgone con una bara, trova sul ciglio della strada i residenti che aspettano il corpo di un combattente morto su uno dei fronti di guerra. Una lunga fila di persone in ginocchio e con una candela nelle mani per mostrare il proprio rispetto verso le vittime dell’invasione russa. Ogni volta che rientra a casa dopo un funerale, non riesce a parlare né a camminare: si sente completamente svuotata e dorme per diverse ore. 

“Se non li conoscevo, prima di accompagnarli nella loro dimora, prima del funerale, ricostruisco le loro vite affinché la loro memoria non venga dispersa”, mi ha confidato una sera. In Ucraina, con Yuliya, ho visitato diversi villaggi che sono stati occupati dai russi nella provincia di Kyiv. A Vorzel mi ha presentato Katia che per la prima volta è riuscita a parlare dei crimini di guerra perpetrati dai russi: “Ci hanno portato in un seminterrato. Hanno ucciso un ragazzo di 15 anni che ha cercato di scappare e ferito una donna. Appena ci hanno sequestrato, hanno chiuso le porte del seminterrato e cercato di ucciderci tutti con il gas. Qualcuno è riuscito ad aprire la porta e per questo motivo molti di noi sono ancora vivi”, ha ricordato Katia, una donna robusta e forte che piange senza pudore. “Una giovane è stata ferita ma l’hanno lasciata morire dissanguata. Lei chiedeva di essere uccisa perché voleva smettere di soffrire, ma i russi l’hanno lasciata agonizzare fino alla fine. Io volevo aiutarla, mi sono offerta di curarla, ma non me lo hanno permesso e questo pensiero mi tormenterà per il resto della mia vita”. Davanti al seminterrato, sul prato si intravede un cumulo di terra. È la fossa anonima dove hanno seppellito le persone ammazzate dai russi.

Un ragazzo con la barba che sembra invecchiato precocemente ha raccontato: “Eravamo in cento nel seminterrato. Io sono riuscito a scappare, i russi mi hanno catturato di nuovo, denudato, picchiato selvaggiamente. E non riesco a dimenticare il cane che era arrivato con i soldati russi. Quando mi ha visto, fuori dal seminterrato, invece di abbaiare, mi ha leccato con affetto. Un gesto di compassione inaspettata che non dimenticherò mai”. Yuliya mi traduce in inglese le parole dei sopravvissuti. “Quando qualcuno è riuscito ad aprire le porte del seminterrato, ormai erano tutti rassegnati a morire. Le donne sono state trovate in ginocchio”, mi spiega Yuliya. E quando chiedo se le donne siano state violentate, lei scuote la testa perché questa è la domanda più difficile da fare e la riposta più difficile da dare. Lei mi prende la mano per farmi capire che ci vuole tempo perché le donne possano parlare apertamente delle brutali violenze sessuali, usate come arma di guerra. E mi fa capire con gentilezza di lasciare cadere l’argomento. Il marito di Katia ci abbraccia e dice una frase sconvolgente: “Aiutateci a restare umani”

La sera prima di lasciare Korosten, Yuliya mi ha raccontato qualche frammento della sua vita, gli amici che ha dovuto seppellire, e poi mi ha mostrato la botola di casa sua dove va a nascondersi ancora oggi con la sua famiglia, quando suonano ripetuti allarmi. Mi ha fatto vedere sul suo computer come erano diventati i giovani soldati dopo essere stati ammazzati: corpi dilaniati, mutilati, sfigurati. E con uno scatto veloce ha cancellato le immagini del terrore perché per andare avanti ad aiutare tutti, per resistere al dolore della morte, vuole mantenere il ricordo di come erano prima della guerra. L’ultimo che ha riportato nella sua casa e poi seppellito il primo giorno di luglio si chiamava Mykola Fishchuk ed era stato un maggiore del ministero degli Interni. Ucciso in missione il 27 giugno 2022 vicino alla città di Chuguyiv, nella regione di Kharkiv. Oltre al tragico compito di fornire il supporto per il congedo dei combattenti, ha contributo all’accoglienza di 1500 sfollati di di Lysyčans'k e Severodonetsk. Yuliya ha un marito ingegnere, Sasha, che non potendo combattere porta aiuti ai soldati al fronte. E negli ultimi giorni il fronte più vicino è stato quello alla frontiera bielorussa, dove i soldati ucraini scavano trincee per difendersi dai russi che potrebbero arrivare dalla Bielorussia per tentare di sfondare di nuovo al Nord e avvicinarsi a Kyiv. In questa guerra a cui non si sa come porre fine, non si può escludere nulla e non resta che continuare a scavare trincee per tentare di difendere ogni punto sensibile. E civili come Yuliya e Sasha, ferventi cristiani, fanno tutto quello che possono per aiutare i soldati che vengono da tutta l’Ucraina per difendere la frontiera a pochi chilometri da casa loro.

Cristina Giudici, giornalista

13 luglio 2022

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