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Lo stato della libertà di stampa in Turchia

di Murat Cinar

Reporter Senza Frontiere (RSF) nella sua ultima classifica, “Indice mondiale della libertà di stampa”, ha messo la Turchia nella 149esima posizione. Nel 2005 era 98esima. Secondo RSF la società civile e il mondo dell’associazionismo sono i due elementi importanti che lottano in Turchia per provare a difendere la libertà di stampa.

La limitazione di questo diritto fondamentale si manifesta in quattro modi principali in Turchia. Il primo, più diffuso e conosciuto è la strada delle denunce e dei processi, che possono concludersi con le detenzioni provvisorie oppure con veri arresti. Spesso e volentieri vengono usati dei “testimoni anonimi” oppure dopo l’arresto del giornalista vengono prodotte delle prove finte. Le accuse più diffuse sono la trasgressione delle leggi sul terrorismo oppure sul vilipendio del Presidente della Repubblica. Il caso della giornalista Serife Oruç dell’agenzia di notizie Dicle ne è un esempio. Oruç è accusata di “appartenenza ad un’organizzazione terroristica” e tra le “prove” che sostengono questa accusa ci sono le dichiarazioni di un testimone anonimo rilasciate all’inizio del processo durante un interrogatorio, ma mai ripetute davanti al giudice nonostante le 19 udienze svolte in 5 anni. Infine sono molto frequenti lunghi periodi di detenzione provvisoria in attesa non solo del verdetto finale, ma anche del capo di imputazione. Il caso più simbolico e conosciuto è quello del giornalista turco-tedesco Deniz Yucel, trattenuto in isolamento per un anno presso il carcere speciale di Silivri senza né capo di imputazione, né mandato di cattura. Il caso di Yucel e di tanti altri suoi colleghi ci fanno capire che le detenzioni contro i giornalisti sono fortemente politiche.

Secondo la piattaforma Expression Interrupted che lavora per l’associazione P24, in Turchia, tra il mese di maggio ed il mese di luglio del 2022, risultavano in carcere 67 giornalisti. Soltanto nel mese di giugno, nella città di Diyarbakir, erano stati presi in detenzione provvisoria 22 giornalisti e per 16 di questi è stato confermato l’arresto. Sempre nello stesso report si sottolinea che nella seconda metà del 2022, in totale 168 giornalisti si sono presentati davanti a un giudice perché denunciati, oppure già sotto processo. Nello stesso periodo in totale sono stati condannati 9 giornalisti a 17 anni di carcere.

Invece nel report analogo preparato dal principale partito d’opposizione, il CHP (Partito Popolare della Repubblica), sempre nei primi sei mesi del 2022, in totale 350 giornalisti si sono presentati davanti a un giudice, 56 giornalisti sono stati presi in detenzione provvisoria e per 23 di questi è stato confermato l’arresto.

Il secondo metodo usato contro le voci d’opposizione è quello dell'aggressione e dell’intimidazione. L’esempio più recente riguarda la reporter Ebru Uzun Oruç che porta nel suo canale YouTube le voci dei cittadini che intervista per strada in diversi angoli della Turchia. Oruç nei primi giorni del mese di agosto ha pubblicato un video in cui chiedeva il parere dei cittadini su Devlet Bahçeli, il leader del Partito del Movimento Nazionalista (MHP), nonché l’alleato parlamentare del partito al governo, AKP. Dopo una serie di minacce ricevute sui social dai militanti del partito, il 13 agosto Oruç insieme a suo marito sono stati vittime di un attentato a Istanbul. L’Associazione dei Giornalisti Progressisti (CGD) ha condannato l’aggressione chiedendo alle autorità di indagare e trovare immediatamente i colpevoli. Su questo episodio, per fortuna concluso con poche ferite, si è pronunciato anche l’RSF sottolineando che i casi analoghi sono diffusi in Turchia e sono i risultati di campagne collettive o individuali di linciaggio avviate da alcuni esponenti importanti dei partiti politici.

Invece nel caso di Gungor Aslan non c'è stato molto da fare. Aslan era il proprietario di un portale di notizie locali, Ses Kocaeli ed è stato assassinato davanti al suo ufficio il 19 febbraio. Nel primo interrogatorio il presunto assassino dopo aver ammesso la colpa ha detto che aveva deciso di assassinare Aslan perché non era d’accordo con un suo articolo. Invece secondo i colleghi di Aslan si è trattato di un’assassinio organizzato, frutto di un lavoro collettivo.

Il terzo metodo per limitare la libertà di stampa in Turchia è la pressione economica che spesso volentieri spinge i giornalisti verso la disoccupazione oppure apre la strada dei processi per la chiusura dei media. Una volta concluso un processo con la chiusura di un medium si avvia il percorso di vendita all’asta e spesso il nuovo acquirente è un’azienda che ha un legame politico, ideologico oppure di parentela con il partito al governo.

Nel report pubblicato a fine 2021, l’Associazione dei Giornalisti di Turchia (TGC) specificava che in 10 anni circa 12 mila giornalisti e reporter erano rimasti senza lavoro perché licenziati per via del contenuto del loro lavoro oppure i media per i quali lavoravano sono stati chiusi come conseguenza di pressioni politiche oppure economiche. Il report conteneva numerose testimonianze che parlavano di una povertà molto diffusa tra i lavoratori ma anche di una capillare censura e autocensura che li portava al licenziamento oppure alle dimissioni.

In un lavoro molto dettagliato ("Cross media ownership in Turkey") preparato dalla rivista Dergi Park, si dimostra che con l’arrivo al potere del partito fondamentalista AKP nel 2002, sono nate alcune aziende, oppure quelle piccole già esistenti sono diventate grandi, e pian piano hanno preso la maggior parte del mercato dei media. Calik Holding e Es Medya sono solo due esempi eccellenti di questa forte trasformazione. Due aziende che operavano principalmente nel mondo dell’energia e dell’infrastruttura oggi possiedono circa il 50% del mercato dei media. L’ex amministratore delegato di Calik Holding è Berat Albayrak ossia il genero dell’attuale Presidente della Repubblica e l’ex Ministro dell’Energia e successivamente l’ex Ministro del Tesoro. Nel 2021 grazie allo scandalo dei Pandora Papers la Turchia ha scoperto come Calik Holding aveva evaso il fisco sistematicamente aprendo delle identità fiscali in quattro paradisi fiscali.

Calik Holding comprò all’asta il colosso della stampa Merkez Medya, nel 2007, pagando 1.1 miliardi di dollari. Successivamente nel 2013 lo vendette all’azienda Kalyon. Quest’ultima secondo il report pubblicato dalla Banca Mondiale nel 2020 è una delle dieci aziende che prende più appalti statali nel mondo. Infatti tra le opere di Kalyon ci sono numerosi aeroporti, dighe, centrali idroelettriche, ponti e università statali.

Es Medya invece apparteneva all’imprenditore Ethem Sancak, un personaggio illustre del movimento fondamentalista, nonché amico caro del Presidente della Repubblica. Fino al 2017 Sancak controllava 24 giornali nazionali e 360 canali televisivi locali e nazionali, e proprio quell’anno ha deciso di vendere tutto a Hasan Yesildag. La vendita è stata confermata dallo stesso Sancak in un’intervista rilasciata a Bloomberg. Il nuovo proprietario è un nome poco conosciuto in Turchia ma per alcuni giornalisti si tratta di una persona molto importante, l’ex compagno di cella del Presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan. Secondo alcuni giornalisti Yesildag lavorò come guardia per Erdogan durante la sua detenzione per 4 mesi nel 1997.

Un altro esempio di come vengono trasformati i profili dei media in Turchia è il caso di Turkuaz Medya. Nel 2017 Turkuaz Medya ha acquistato all’asta 2 canali televisivi e 5 canali radiofonici precedentemente appartenenti alla comunità di Gulen oppure vicini alla sua linea ideologica. La comunità religiosa e economica di Gulen è quella realtà, ex alleata del governo, accusata di essere l’origine e la messa in pratica del fallito golpe del 2016. Durante lo stato d’emergenza, dal 2016 al 2018, vari media appartenenti oppure vicini a Gulen sono stati chiusi, confiscati e venduti all’asta.

Nel 2003 l’avvocato Fikret Ilkiz in un suo lavoro di approfondimento pubblicato sul portale di notizie BiaNet, e nel 2017 il professore universitario Burak Celik in una ricerca accademica, parlarono in modo dettagliato di come i media in Turchia venivano controllati da alcune aziende. Invece con un report del 2017 il giornalista Abdullah Köktürk, dimostrò come le posizioni politiche e ideologiche dei media principali, controllati dalle aziende sopracitate, ormai erano decisamente e evidentemente allineate con quelle del governo centrale. Dunque in una situazione del genere le voci d’opposizione trovano poco spazio di espressione e di impiego.

L’ultimo elemento che viene usato spesso in Turchia per limitare la libertà di stampa è la legge. In questi ultimi anni la coalizione di governo ha introdotto una serie di cambiamenti legislativi con la scusa di “tutelare la serenità del popolo, difendere i valori della famiglia e la sicurezza nazionale”. Tuttavia in realtà queste novità hanno portato ulteriori censure e hanno limitato lo spazio di manovra e espressione nei media. L’ultimo esempio di questo è la proposta di legge “contro la disinformazione” che la coalizione di governo sta cercando di far passare. Con questa legge fare disinformazione verrebbe definito come un reato, punito fino a 3 anni di reclusione. La definizione del reato è molto generica e larga: “Diffondere notizie con l’obiettivo di creare panico, paura e preoccupazione, causare pericolo per la sicurezza nazionale e diffondere informazioni dannose per salute e ordine pubblico”. La proposta di legge riguarderebbe anche i siti web e il giornalista trovato colpevole perderebbe la sua tessera. Infine per essere più efficace, la proposta di legge prevede che i social media abbiano un ufficio di rappresentanza in Turchia e un rappresentante di cittadinanza turca. Nel caso di un'indagine sulla “disinformazione” i social media sarebbero tenuti a fornire le generalità di uno o più utenti e nel caso in cui questi non rispondessero alla richiesta la larghezza della banda che usano può essere ridotta fino al 90% e infine il loro servizio potrebbe essere impedito fino a 6 mesi di tempo.

Questo quadro, illustrato brevemente e con alcuni elementi esemplificativi, aiuta a capire che la Turchia non è un paese facile e sicuro per chi lavora nel mondo dell’informazione. La situazione raccontata in quest’articolo è frutto di un disegno politico e economico che prende di mira il mondo dell’informazione indipendente, che quando necessario può mettere in discussione l’operato del potere amministrativo. Anche se lo strumento più popolare sembra quello della detenzione, ci sono numerosi metodi alternativi per impedire il lavoro e intimidire le migliaia di giornalisti e reporter che non finiscono in carcere e cercano di svolgere il loro lavoro correttamente e onestamente.

Murat Cinar, giornalista esperto di Turchia

24 agosto 2022

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