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Taiwan nella morsa delle ambizioni cinesi: cosa dobbiamo aspettarci

di Lorenzo Lamperti (China Files), da Taipei

Sarà pure una "piccola isola", come viene spesso descritta, eppure il suo destino ricopre una grande importanza per gli equilibri globali. Taiwan è indipendente de facto, ma la Repubblica Popolare Cinese la ritiene una "provincia ribelle" parte del suo territorio. Il suo nome ufficiale è Repubblica di Cina e deriva dal ripiegamento sull'isola dei nazionalisti di Chiang Kai-shek, sconfitti nella guerra civile cinese. 

Nel 1949, mentre a Pechino prendeva il potere il Partito comunista (Pcc), a Taiwan iniziava la legge marziale poi cancellata nel 1987. Da allora Taipei, già considerata una delle "tigri asiatiche" per il suo sviluppo economico e tecnologico, è stata protagonista di un forte processo di democratizzazione che la pone oggi all'avanguardia sotto il profilo dei diritti umani e civili nell'intero panorama asiatico. Nel 2019, per esempio, sono stati legalizzati i matrimoni tra persone dello stesso sesso: una pietra miliare per la comunità Lgbt+, che non si vede riconosciuto questo diritto in nessun altro territorio dell'Asia.

Per decenni la pace è stata garantita da un fragile ma conveniente status quo, entrato in crisi negli ultimi tempi con le crescenti pressioni militari cinesi. Nei primi quattro giorni di ottobre, 156 velivoli dell'Esercito popolare di liberazione sono entrati nello spazio di identificazione di difesa aerea taiwanese (la cui esistenza non è riconosciuta da Pechino). Il presidente Xi Jinping ha ribadito che la "riunificazione" di Taiwan è "una questione interna" cinese e che in un modo o nell'altro "avverrà", meglio se pacificamente. La presidente Tsai Ing-wen ha risposto che Taiwan "non si piegherà" alle pressioni e ha invitato Xi a "impegnarsi in un dialogo sulla base della parità".

Si tratta di punti di partenza inconciliabili. Pechino chiede come precondizione al dialogo il riconoscimento del cosiddetto "consenso del 1992", nel quale Gmd e Pcc hanno convenuto sull'esistenza di una "unica Cina", seppure senza stabilire quale fosse. Dall'altra parte, il Pdp chiede l'assenza di precondizioni e un confronto tra pari. Per questo, dal 2016 e dall'elezione di Tsai è cessato il dialogo politico intrastretto. Il Pcc accusa il governo taiwanese di "secessionismo" e vede nell'aumento degli scambi militari e diplomatici con gli Stati Uniti un tentativo di andare verso l'indipendenza. Ma per il Pdp l'indipendenza esiste già, seppure come Repubblica di Cina e non come Repubblica di Taiwan, e teme un tentativo di "unificazione" o "annessione" militare.

Negli ultimi anni la Cina è diventata più forte, sia livello economico sia a livello militare, e non vuole più nascondere le proprie ambizioni come ai tempi di Deng Xiaoping. Xi, artefice del nuovo "sogno cinese", vuole rimarginare l'ultima ferita del "secolo delle umiliazioni" (quando Taiwan era una colonia giapponese) e completare il "ringiovanimento nazionale". Possibilmente entro il suo orizzonte politico. Da qui l'esigenza di mostrare i muscoli, come fatto in particolare a partire dal 2019 con una serie di discorsi nei quali non è stato escluso l'utilizzo della forza. Tutto questo mentre cerca di erodere i già esigui spazi diplomatici di Taipei, al momento riconosciuta solo da 15 stati. La crescente aggressività di Pechino, insieme alla stretta finale compiuta su Hong Kong, hanno però avuto l'esito di allontanare ancora di più Taiwan, che ormai rifiuta in toto l'offerta del modello "un paese, due sistemi" naufragato nell'ex colonia britannica. Contestualmente, Taipei continua a forgiare la sua identità. Ormai oltre il 65% dei cittadini si considera solo "taiwanese" e non "cinese" e l'implementazione di nuovi diritti civili contribuisce a rafforzare il senso di alterità rispetto a una Cina dove il Partito è una presenza sempre più ingombrante in tutti i gangli della vita non solo politica ma anche economica e sociale.

I prossimi anni saranno decisivi. L'ultimo rapporto della Difesa taiwanese ha sottolineato con inedita urgenza la capacità militare della Cina di operare un'invasione. A Taipei ritengono improbabile che Xi si muova prima del 2023, quando dovrebbe ottenere ufficialmente il terzo mandato. Potrebbe aspettare anche il 2024 e le prossime elezioni presidenziali a Taiwan, per vedere se il Gmd può tornare al governo. Ma intanto è prevedibile che le pressioni aumenteranno, per raggiungere scopi sia retorici sia strategici. Primo: ribadire all'esterno che gli obiettivi su Taiwan non sono negoziabili. Secondo: aumentare la tensione psicologica sui taiwanesi e presentare il voto del 2024 come una scelta tra guerra e pace. Un trucco già utilizzato in passato, ma stavolta più credibile con il contestuale allargamento della zona grigia militare intorno allo Stretto. Diversi analisti ritengono plausibile, piuttosto che un'invasione diretta, uno "stress test" su una delle 103 isole minori amministrate da Taipei, alcune di esse a pochissime miglia nautiche dalle coste cinesi. Una mancata reazione da parte degli Usa o del Giappone potrebbe fiaccare la volontà e prontezza a combattere dei taiwanesi, che il governo di Taipei sta cercando di alimentare non tenendo più un basso profilo sulle manovre militari cinesi come invece faceva in passato. Intanto, Taiwan cerca di rafforzare le partnership con Usa, Unione europea e altri paesi asiatici presentandosi come "bastione della democrazia" da preservare per non lasciare campo libero alle autocrazie. Senza dimenticarsi un aspetto economico cruciale: il 60% della fabbricazione mondiale di semiconduttori, fondamentali per lo sviluppo tecnologico, è made in Taiwan. Sarà pure una "piccola isola", ma il suo destino è fondamentale. E non solo per i suoi 23 milioni di abitanti.

Lorenzo Lamperti, direttore editoriale China Files

20 ottobre 2021

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