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Tunisia ed Egitto, nuove Costituzioni

lo specchio delle Primavere

Tre anni dopo la fuga di Ben Ali, nuova costituzione per la Tunisia. Il parallelo corre subito a un altro Paese protagonista della primavera araba, l’Egitto, che ha adottato una nuova Carta proprio pochi giorni fa.

Ciò che colpisce, in entrambi i documenti, è l’accento sulla parità tra uomo e donna. In particolare, l’articolo 20 della Costituzione tunisina sancisce l’uguaglianza dei loro diritti e doveri, mentre l’articolo 45 impone che il governo non solo protegga i diritti delle donne, ma anche che garantisca le pari opportunità anche all’interno dei consigli elettivi. L’articolo 11 dell’omologo documento egiziano stabilisce invece l’uguaglianza nel campo dei diritti civili, politici, sociali ed economici; le donne hanno quindi il diritto di accedere ad alte cariche amministrative e giudiziarie dello Stato, che ha il dovere di proteggerle da ogni forma di violenza.

Nonostante alcune somiglianze, le due Carte sono molto diverse tra loro, e riflettono il risultato delle rivoluzioni iniziate nel 2011. In Tunisia la Primavera ha avuto successo, portando non solo alla caduta di Ben Ali, ma anche all’avvio di un serio processo di democratizzazione del Paese. La Costituzione, figlia di questo percorso, rispecchia gli sforzi di giungere a un compromesso tra il partito islamico Ennahda e i partiti laici: basti pensare che la sharia, a differenza di quanto previsto dalla Carta egiziana, in Tunisia non sarà fonte primaria di diritto. Nonostante le prove democratiche siano ancora agli inizi, i 160 partiti presenti oggi sulla scena tunisina si dividono sopratutto per la loro idea di società prima ancora che su temi religiosi. E lo stesso partito islamico Ennahda, che pure alle elezioni ha ottenuto la maggioranza relativa, ha avuto bisogno del sostegno dei laici per governare, generando di conseguenza un necessario percorso di compromesso.

I tunisini, secondo un rapporto di Freedom House, festeggiano i tre anni dalla Rivoluzione dei Gelsomini con un governo islamista che ha saputo gestire il potere in modo inclusivo, cedendo il passo a una squadra incaricata di gestire la transizione verso un governo tecnico e di organizzare nuove elezioni - che si terranno entro l’anno.

Conseguenza del fallimento della primavera egiziana è invece la costituzione del Cairo, che riflette la polarizzazione della popolazione - divisa tra sostenitori dei militari e dei Fratelli Musulmani. “Stiamo tornando indietro, i media fomentano l’odio anti islamico, i Fratelli Musulmani hanno commesso errori ma quanto accaduto dopo è peggio del golpe del 1952”: commenta così la situazione Tarek el Malt, uno dei pochi dirigenti a piede libero del partito Wasat, alleato dei Fratelli Musulmani.

In Egitto la risposta alle richieste della rivoluzione è stata sostanzialmente un ritorno al passato, al comando dei militari che dal 1952 sono al vertice della catena del potere nel Paese. Sono stati “traditi” i giovani - l’anima della rivoluzione del 2011 e di quella dello scorso giugno, quando è stato deposto Morsi - che, allarmati per la svolta autoritaria dell’esercito, nei giorni scorsi hanno boicottato il referendum costituzionale.

Il generale Al Sisi ora si è candidato alle elezioni presidenziali, e per una parte della popolazione questo è l’unico modo per far tornare il Paese alla stabilità. “I turisti iniziano a tornare, l’economia non riparte senza la sicurezza - dicono i negozianti del Cairo - e noi abbiamo solo Al Sisi. Non piace l’idea che l’esercito sia il nostro destino, ma chi altro c’è?”.  

Restano quindi diversi interrogativi sul futuro del Paese, che con la nuova Costituzione ha anche esteso il potere dei militari. L’esercito infatti resta il garante del potere, un passo indietro rispetto a un governo democraticamente eletto, per quanto estremamente carente.

28 gennaio 2014

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