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Islam, educazione contro la violenza

Intervista al teologo Adnane Mokrani

L‘Islam non è una religione di pace, i musulmani devono ammettere che le istigazioni alla violenza sono nei testi sacri e assumere la responsabilità di ridefinire le basi della religione per spezzare il legame tra quest'ultima e l'estremismo islamico. Lo ha scritto Ayaan Hirsi Ali, attivista politica e scrittrice somala naturalizzata americana, nel libro “Eretica. Cambiare l’Islam si può”, indicando i principi su cui fondare la riforma: il Corano è solo un libro e non è depositario di verità divine; la vita terrena è più importante di ciò che accade dopo la morte; la ‘Shari’ah’ deve essere subordinata alle leggi dello Stato. Tesi che hanno suscitato molte reazioni all'uscita del libro e che tornano di attualità mentre in Europa crescono diffidenza e ostilità verso i musulmani dopo gli attentati dell'ISIS. 

Per capire se la riforma dell'Islam sia una strada percorribile e possa favorire la convivenza tra le diverse comunità religiose ed etniche, Gariwo ha intervistato Adnane Mokrani, teologo musulmano e professore di studi islamici al Pontificio Istituto di Studi Arabi e di Islamistica (PISAI) e alla Pontificia Università Gregoriana.

Come teologo condivide queste proposte e le ritiene fattibili?

Da teologo musulmano mi è difficile dire che il Corano è solo un libro, come anche la Bibbia e i Veda. Sono i libri sacri e hanno un valore particolare perché nutrono l’esperienza spirituale che apre la persona alle verità divine. Dunque non si può dire che la verità divina è rinchiusa dentro un libro, ma il libro può essere lo strumento, l’inizio di un cammino: illumina ma non sostituisce l’esperienza religiosa individuale. Direi poi che la vita terrena è importante, perché chi non vive questa apertura all’umano e al divino e non respira il profumo del Paradiso oggi su questa terra, non riesce a viverla pienamente dopo. Penso inoltre che il musulmano debba rispettare la legge dello Stato, emanata da un parlamento libero scelto dal popolo secondo le regole democratiche. La 'Shari’ah' indica un modello di comportamento religioso, va intesa etica e non come legge.

Altri principi da abolire, secondo Hirsi, sono la coercizione e il conformismo imposto e la ‘Jihad’ come guerra contro i non musulmani e i musulmani eretici o apostati. E’ d’accordo?

La coercizione è inaccettabile soprattutto rispetto alla religione, che deve essere frutto della libera scelta, questo è detto in modo esplicito nel Corano, “Non c'è costrizione nella religione”, (2, 256). Il formalismo imposto non è altro che ipocrisia, vivere le regole senza convinzione non ha senso né significato religioso. Ovviamente alcuni gruppi musulmani non hanno capito questo insegnamento coranico e hanno seguito altre indicazioni che permettono l’uso della forza per vivere la religione.
Quanto alla ‘Jihad’, nel Corano questa parola non è sinonimo di uno sforzo bellico ma di qualsiasi sforzo il musulmano fa per servire Dio e quindi la gente e dunque per la giustizia sociale e la pace. La guerra nel Corano è permessa solo in caso di difesa: quando la nazione è attaccata da una forza straniera, si può combattere per difendere la nazione. Ovviamente nella storia troviamo musulmani che hanno fatto conquiste, guerre, invaso altri paesi: l’imperialismo islamico. Come gli altri uomini, i musulmani hanno seguito la logica del tempo in ogni epoca, ma è difficile trovare una giustificazione religiosa nel Corano per queste azioni.

La sua posizione di apertura, tolleranza e dialogo è condivisa dalla maggioranza dei teologi musulmani e dei musulmani stessi? E come può diffondersi in un contesto caratterizzato oggi da attacchi di gruppi armati per imporre l’Islam?

Nel mondo islamico, dal Marocco all’Indonesia, ci sono molti pensatori, sapienti e giovani convinti dei principi di pace e giustizia, anzi rappresentano la maggioranza assoluta, ma la scena internazionale è dominata dagli estremisti violenti che danno un’immagine opposta. In Siria il popolo aveva iniziato a manifestare in modo pacifico con la musica e il canto contro la dittatura, ma la risposta violenta del regime ha innescato una reazione simile da parte dei gruppi ribelli e così è scoppiata la guerra civile e la voce della guerra ha sovrastato quella della società civile. La minoranza violenta sul piano mediatico è molto presente, perché attacca, fa esplodere, fa rumore. In verità la soluzione deve essere politica e sociale, perché la riforma del pensiero religioso islamico non può essere una realtà accettata senza un’apertura politica che permetta la libertà d’espressione e di ricerca. Ci sono università e centri di studio che tentano di aprire un dibattito positivo e serio sul pensiero islamico contemporaneo, ma purtroppo in tanti paesi ci sono ostacoli politici e questo influisce anche sugli aspetti culturali e sociali del pensiero religioso. L’ignoranza e l’analfabetismo rappresentano un terreno fertile per lo sviluppo dell’estremismo e del fondamentalismo. Noi possiamo combatterli con una presa di coscienza democratica e soprattutto con l’educazione, non solo nei paesi a maggioranza islamica, ma ovunque si manifestino ostilità e chiusura. Quindi la chiave per fare progressi è aprire i due mondi a un incontro, a non considerarsi ostili solo perché diversi. Oggi i gruppi terroristici, in particolare l’ISIS, cercano di creare una spaccatura tra mondo islamico e occidente, un’ondata di odio che si traduce in paura, sospetto, razzismo, islamofobia e pressione nei confronti dei musulmani. In questo clima di terrore loro possono manipolare e rafforzarsi. Noi musulmani, cristiani, ebrei e altri anche senza convinzione religiosa dobbiamo essere solidali e non permettere la polarizzazione della società perché, se rispondiamo al terrorismo con la paura e il razzismo, si consolida il progetto terroristico e questo indebolisce la democrazia e colpisce l’Europa nell’anima.

Si è parlato della visita del Papa alla Moschea di Roma, la prima di un pontefice alla Moschea della capitale. Questo evento potrebbe aiutare a superare le barriere?

Sicuramente questo gesto può avere una grande importanza simbolica. Il Papa si è di recente recato alla Sinagoga di Roma e una futura visita alla Moschea significa in qualche modo un riconoscimento della comunità islamica italiana, un segno di dialogo e di apertura, che incoraggia le persone impegnate sul campo.

La disponibilità al dialogo e a riformare l’Islam, espresse da lei e altri teologi, riescono ad arrivare nelle mosche e ai comuni fedeli?

Le associazioni islamiche in Italia sono sempre più consapevoli del loro compito, della loro responsabilità, in tante hanno aderito al Giubileo della misericordia, apprezzando l‘iniziativa perché tocca un valore fondamentale per l’Islam: tornare alla misericordia significa riscoprire l’essenza della religione. Subito dopo gli attacchi a Parigi in gennaio e in novembre quasi tutte le associazioni hanno condannato in modo categorico il terrorismo. C’è questa volontà, ma l’Islam italiano ha bisogno di organizzarsi meglio e di ottenere l’intesa con lo Stato italiano, che conferirà alcuni diritti e vantaggi.

Le donne musulmane sono spesso in una condizione di isolamento, se non imparano la lingua e non lavorano. I responsabili delle comunità islamiche possono impegnarsi per migliorare la loro condizione?

L’immigrazione è costituita da persone di paesi e culture diversi, marocchini, algerini, tunisini, egiziani, ma quando arrivano in Italia sono messi tutti sotto la categoria dei “musulmani”. Dobbiamo vedere da dove vengono, spesso si tratta di villaggi rurali, qui in Italia manca una leadership culturale e le persone sono talvolta prive di strumenti per inserirsi e incapaci di confrontarsi con la società moderna. In questo caso non solo le associazioni islamiche, ma anche le associazioni italiane religiose e laiche devono intervenire perché l’integrazione non è un cammino naturale che procede in modo spontaneo, ma va accompagnata e incoraggiata. Questo forse manca in Italia, un progetto che aiuti gli immigrati a inserirsi nella società. E il primo passo è l’educazione, imparare la lingua italiana. Questo vale per la prima generazione, perché la seconda, costituita dai bambini nati qui, apprende nelle scuole la lingua, la cultura e la storia italiana.


Adnane Mokrani, nazionalità tunisina, teologo musulmano, professore di studi islamici al Pontificio Istituto di Studi Arabi e di Islamistica (PISAI) e alla Pontificia Università Gregoriana. Ha conseguito il Dottorato in Teologia Islamica presso l’Università Al- Zaytuna di Tunisi e in Dialogo Islamo-Cristiano presso il PISAI; poligotta (arabo, italiano, inglese, francesce) ha studiato l’ebraico biblico e il greco biblico.

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