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Per mesi ho tenuto la foto di Silvia Romano. Sapevo a cosa stava andando incontro

dalla testimonianza di Maryan Ismail

Silvia Romano

Silvia Romano

“Quando si parla del jihadismo islamista somalo mi si riaprono ferite profonde che da sempre cerco di rendere una cicatrice positiva. L'aver perso mio fratello in un attentato* e sapere quanto è stata crudele e disumana la sua agonia durata ore in mano agli Al Shabab mi rende ancora furiosa, ma allo stesso tempo calma e decisa.
Perché? Perché noi somali ne conosciamo il modus operandi spietato e soprattutto la parte del cosidetto volto "perbene" . Gente capace di trattare, investire, fare lobbing, presentarsi e vincere qualsiasi tipo di elezione nei loro territori e ovunque nel mondo.
Insomma sappiamo di essere di fronte a avversari pericolosissimi e con mandanti ancor più pericolosi.
Ora la giovane cooperante Silvia Romano, che è bene ricordare NON ha mai scelto di lavorare in Somalia, ma si è trovata suo malgrado in una situazione terribile, è tornata a casa.
Non è un caso che per mesi ho tenuto la foto di Silvia Romano nel mio profilo Fb. Sapevo a cosa stava andando incontro.
Si riesce soltanto ad immaginare lo spavento, la paura, l'impotenza, la fragilità e il terrore in cui ci si viene a trovare?
Certamente no, ma bastava leggere i racconti delle sorelle yazide, curde, afgane, somale, irachene, libiche, yemenite per capire il dolore in cui si sprofonda”. Inizia così la toccante lettera che Maryan Ismail, antropologa e Ambasciatrice di Gariwo, ha scritto a Silvia Romano dalla sua pagina Facebook.
Sono parole intense, dure, che toccano anche il tema della conversione e dell’abito indossato dalla giovane cooperante - che, ricorda Ismail, non ha nulla di somalo, ma è una “divisa islamista”. Fondamentale è il passaggio sull’Islam.
Quale Islam ha conosciuto Silvia?” si chiede ancora Ismail.
“Quello pseudo religioso che viene utilizzato per tagliarci la testa? Che obbliga i giovani ad arruolarsi con i jihadisti? No, non è Islam questa cosa”. Proprio su questo argomento, nel 2016, Maryan Ismail aveva scritto per Gariwo un importante articolo. Il momento era delicato, l’Europa aveva ancora negli occhi le stragi terroristiche di Parigi e respirava il timore di nuovi attentati.
Alla domanda “cosa farei di fronte a un jihadista?”, rispondeva così: “La cosa più semplice, immediata e forse utile, sarebbe raccontarsi. Cosa e chi ci tolgono con la loro infamante follia omicida giustificata, nel nome di un Dio inventato per conquistare potere, controllo e denaro. Sì, credo che ascoltare il dolore dei parenti, degli amici e degli affetti di chi è rimasto vittima sia il miglior antidoto contro la scelta, altrettanto orribile, che fanno loro stessi. Ho affrontato la morte di mio fratello con forza e energia, perché mi sono sentita da subito investita dal compito di non vanificare il suo sacrificio, affinché attraverso tale sacrificio la voce delle tantissime vittime sconosciute riacquistassero la dignità umana che spetta loro.
Se dovessi trovarmi di fronte a qualcuno che crede di immolarsi per la religione, ebbene, metterei a nudo il mio dolore. Quel dolore che non ho mai “volutamente” raccontato, per pudore o perché troppo dilaniante. Direi che mi ha tolto il senso del mio mondo d'affetto, la mia patria, la mia infanzia, la mia sicurezza, con la certezza che non potrò mai più parlargli.
Racconterei che qualcuno, giovane come lui, ha spento un uomo, una biblioteca d'esperienza, un uomo fantastico e solare, colui con cui andavo a ballare da giovane: eh sì, ballava la salsa in modo divino, nonostante la ciccia dovuta ai “pranzi diplomatici”.
A volte il dolore riguarda ciò che avevamo e che abbiamo perso, altre volte ciò che mai avremo. Quello che fa più male è la perdita delle “possibilità”". Un dolore messo a nudo, quindi, di fronte all’immagine del proprio Paese d’origine sconvolto dal fondamentalismo. Una ferita che tuttavia non dimentica la cultura della Somalia, che Maryan vorrebbe raccontare a Silvia Romano. “La nostra preziosa cultura matriarcale, fatta di colori, profumi, suoni, canti, cibo, fogge, monili e abiti. Le nostre vesti e gioielli si chiamano guntino, dirac, shash, garbasar, gareys, Kuul, faranti, dheego,macawis, kooffi. I nostri profumi si chiamano cuud, catar e persino barfuum (che deriva dall'italiano).
Ho l'armadio pieno delle stoffe, collane e profumi della mia mamma. Alcuni di essi sono il mio corredo nuziale che lei volle portarsi dietro durante la nostra fuga dalla Somalia.
Adoriamo i colori della terra e del cielo.
Abbiamo una lingua madre pieni di suoni dolci, di poesie, di ninne nanne, di amore verso i bimbi, le madri, i nostri uomini e i nonni.
Abbiamo anche parti terribili come l'infibulazione (che non è mai religiosa, ma tradizionale), ma le racconterei come siamo state capaci di fermare un rito disumano.
Come e perché abbiamo deciso di non toccare le nostre figlie, senza aiuti, fondi e campagne di sostegno.
Ma soprattutto le racconterei di come siamo stati, prima della devastazione che abbiamo subito, mussulmani sufi e pacifici, mostrandole il Corano di mio padre scritto in arabo e tradotto in somalo..
Di quanti Imam e Donne Sapienti ci hanno guidato.
Della fierezza e gentilezza del popolo somalo”.

*Yusuf Mohamed Ismail era l'ambasciatore del governo somalo a Ginevra, presso l'Onu e la Confederazione Elvetica. È stato assassinato il 27 marzo 2015 dai terroristi di Al-Shabaab, durante l'assalto all'hotel Al Mukarama di Mogadiscio. (ndr)

12 maggio 2020

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