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Perché Israele si rifiuta di riconoscere il genocidio armeno?

Secondo lo storico Eldad Ben Aharon, i motivi sono radicati nel legame tra Israele e l’Olocausto e nei limiti del sistema politico israeliano

In un editoriale pubblicato ieri sul quotidiano israeliano Haaretz, lo storico Eldad Ben Aharon, che insegna studi israeliani e relazioni internazionali all’università di Leiden, ha parlato dei motivi per cui, contrariamente ad altri paesi, Israele si rifiuta di riconoscere il genocidio degli armeni cristiani, accaduto tra il 1915 e il 1916 nell’allora territorio ottomano.

Il riconoscimento, scrive Ben Aharon, non è solo un atto simbolico, ma anche legislativo, e come tale può portare all’istituzione di festività pubbliche o di musei, e comporta un allineamento del paese che riconosce il genocidio con organi internazionali che si occupano, tra altre cose, della prevenzione di genocidi, come le Nazioni Unite. Tutto questo sembrerebbe coerente con una cultura politica liberale e democratica, come è, dice Ben Aharon, quella israeliana. Il rifiuto di riconoscere il genocidio armeno, dunque, appare contraddittorio e poco comprensibile.

Secondo Ben Aharon la motivazione generalmente usata per spiegare il rifiuto, cioè che il riconoscimento del genocidio armeno da parte di Israele comprometterebbe le sue relazioni con la Turchia, non è sufficiente per spiegare un fenomeno che ha radici più profonde e complesse.

Paesi come gli Stati Uniti, la Germania e l’Olanda, per esempio, sono sempre stati alleati della Turchia: se da un lato questo li ha trattenuti per molti anni dal riconoscere il genocidio armeno, dall’altro il riconoscimento è infine arrivato. Tra il 2016 e il 2019, soprattutto a seguito di una dichiarazione controversa del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, i parlamenti di tutti e tre questi paesi hanno formalmente riconosciuto il genocidio armeno. In occasione del 99esimo anniversario del genocidio armeno, infatti, Erdoğan aveva detto che gli armeni erano morti insieme a milioni di persone “di ogni religione ed etnia” nel 1915, e che quella tragedia era una “tragedia condivisa”. Con quella che Ben Aharon definisce una “davvero sofisticata forma di negazionismo”, Erdoğan aveva accomunato gli armeni a tutti i morti della Prima guerra mondiale, negando, di fatto, l’esistenza di un genocidio nel loro caso specifico. Anche per paesi che avevano stretti legami con la Turchia quella dichiarazione era stata la molla per riconoscere il genocidio e prendere le distanze dal negazionismo di Erdoğan. “Ironicamente”, scrive Ben Aharon, “Erdoğan ha normalizzato il processo di riconoscimento del genocidio”.

E allora perché non Israele? Nel suo editoriale, Ben Aharon dice che “c’è una questione fissa e basilare, che dipende in misura molto minore dalle relazioni esterne o dagli eventi esterni a Israele, ma che influenza in modo unico la politica israeliana rispetto al riconoscimento del genocidio armeno: la memoria dell’Olocausto come ‘unica’”. Per Israele, scrive Ben Aharon, qualsiasi analogia con l’Olocausto viene vista come una banalizzazione del dolore ebraico, e questo rappresenta un “anatema della ‘condivisione’ del destino di vittime di genocidio, una paura di altre commemorazioni di genocidi, viste come se fossero in competizione con quella ebraica”.

Secondo Ben Aharon, questo fa sì che il mancato riconoscimento del genocidio armeno nasca anche da una ragione “completamente pragmatica”. Se Israele riconoscesse il genocidio armeno, le commemorazioni sarebbero troppo vicine a quella dell’Olocausto: “in Israele, la data del Giorno della Memoria dell’Olocausto è celebrata secondo il calendario ebraico, e cade generalmente tra la seconda metà di aprile e inizio maggio. Se lo Knesset riconoscesse il genocidio armeno, la sua commemorazione, che cade il 24 aprile, sarebbe vicina a quella dell’Olocausto, il che metterebbe in atto quella paura della “competizione” nella commemorazione dei genocidi”.

Secondo Ben Aharon, l’unica possibilità che Israele ha per uscire da questo stallo e riconoscere il genocidio armeno dipende dal rafforzamento della sua cultura democratica. L’editoriale sostiene che l’assetto politico di Israele non permetta su molte questioni l’espressione di un voto di libera coscienza, come accade in altre legislature democratiche. Il “problematico equilibro tra il potere legislativo ed esecutivo di Israele”, scrive Ben Aharon, “dipende dallo strapotere che l’esecutivo ha sul legislativo, cioè la Knesset: il potere esecutivo incoraggia una stretta disciplina di coalizione su molti voti che, in altre legislature democratiche, sarebbero liberi voti di coscienza e rifletterebbero meglio la diversità di opinioni all’interno dei partiti”. Questo crea poco spazio di manovra, dice Ben Aharon augurandosi che “israeliani più giovani e liberali amplino una visione più universalistica dell’Olocausto: una speranza modesta che per ora deve bastarci”.

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