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Ruanda, Kabuga a processo

di Riccardo Michelucci

Erano molti, ormai, a temere che questo processo non ci sarebbe mai stato. Invece nelle scorse settimane il Tribunale penale internazionale di Arusha ha aperto finalmente il procedimento a carico di Félicien Kabuga con molteplici accuse risalenti al genocidio del Ruanda. Ormai 86enne, latitante per oltre un quarto di secolo, Kabuga si è rifiutato di comparire in aula ma i giudici hanno ordinato che il procedimento andasse avanti. Negli anni in cui era stata chiamata a seguire il dossier sul genocidio in Ruanda, Carla Del Ponte non ha mai avuto dubbi sul ruolo di primissimo piano svolto da Kabuga. La sua leggendaria latitanza, durata oltre un quarto di secolo, si è conclusa il 16 maggio 2020 in un sobborgo di Parigi dove l’uomo si è infine arreso agli investigatori francesi dopo aver cambiato decine di residenze in tutto il mondo, avvalendosi di un numero imprecisato di identità e di passaporti. Dopo il genocidio aveva vissuto a lungo in Kenya, a Nairobi, protetto dal presidente keniota Moi, oltre che dalla sua straordinaria ricchezza. 

Secondo il giudice Del Ponte, Félicien Kabuga non era stato semplicemente un “magnate dei media”, un imprenditore miliardario che aveva legato il suo nome alla famigerata Radio Mille colline, la cui propaganda incendiaria e l’incitamento all’odio etnico avevano contribuito a scatenare i massacri. Era stato uno dei principali pianificatori del massacro di circa un milione di ruandesi, un uomo che unitosi a una ristretta cerchia di “amici” si era reso responsabile di uno dei più gravi crimini di massa del XX secolo. E per questo motivo era diventato uno degli uomini più ricercati del mondo.

Aveva agito in modo razionale, sistematico, brutale. Aveva acquisito influenza politica facendo sposare una delle sue figlie con il figlio maggiore del dittatore-presidente e un’altra con il figlio del ministro della pianificazione (anch’egli futuro complice del genocidio). L’assetto garantiva, di fatto, l’omertà e l’insabbiamento reciproco. Nella primavera del 1993 Kabuga aveva acquistato con i propri soldi e fatto arrivare in Ruanda mezzo milione di machete e altri attrezzi agricoli, assai più economici delle armi da fuoco. Poi aveva finanziato la mobilitazione parziale degli hutu in una sorta di milizia non governativa denominata Interahamwe (letteralmente “coloro che lavorano insieme”), i cui membri erano stati da lui istruiti, assistiti e sollecitati. Nel linguaggio usato ai microfoni di Radio Mille colline “lavorare insieme” era il segnale in codice per far scattare le incursioni a colpi di machete e le stragi dei tutsi. Nell’estate del 1993 l’emittente - di cui Kabuga era sia il proprietario che il direttore generale – aveva iniziato una sistematica campagna di disumanizzazione nei confronti dei tutsi, definendoli scarafaggi e propagandando il loro sterminio come un atto di patriottismo e di difesa della democrazia. Quando il 6 aprile 1994 un missile terra-aria di origine ignota abbatté l’aereo sul quale viaggiava il presidente ruandese Habyarimana, i tutsi furono accusati della sua morte (sulla quale non si è mai indagato a fondo) e lo schianto fu il segnale dell’inizio del massacro. Per poco più di tre mesi il Ruanda si trasformò in un vero e proprio inferno: centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini di etnia tutsi furono massacrati a colpi di machete e di mazza, o bruciati vivi nelle scuole e nelle chiese. La furia omicida delle milizie Interahamwe non si fermò neanche di fronte ai luoghi sacri. Oltre a un gigantesco numero di vittime si contarono poi oltre un milione e mezzo di sfollati. Fu un’ecatombe di dimensioni epocali.

Figlio di contadini del nord del Ruanda, Félicien Kabuga aveva iniziato da giovanissimo a vendere vestiti usati e sigarette nel suo villaggio, facendo fortuna con l’acquisto di terreni sui quali aveva avviato piantagioni di tè. Si era dimostrato un abile uomo d’affari capace di accumulare in poco tempo una grande fortuna. Qualche anno dopo il genocidio, molti miliziani e civili hutu sono stati arrestati e condannati a pene severe. Ma i grandi ideologi e finanziatori sono riusciti scappare dalla giustizia. Tra questi c’era anche Felicién Kabuga, nonostante la taglia di cinque milioni di dollari sulla sua testa e le indagini dell’FBI. Adesso, a quasi trent’anni dal genocidio si trova finalmente di fronte al Tribunale penale internazionale per il Ruanda di Arusha, in Tanzania, dove il procuratore Rashid Rashid gli chiederà conto del suo “ruolo sostanziale e intenzionale” nella mattanza del 1994. La difesa di Kabuga ha cercato in tutti i modi, inutilmente, di bloccare il procedimento sostenendo che la sua fragilità fisica e mentale lo rende inadatto a essere processato.

Quello del Ruanda fu uno sterminio pianificato, basato su divisioni antiche causate da politiche che, finita l’epoca colonialista, non hanno mai smesso nei fatti di essere colonialiste, sostituendo il dominio territoriale con il controllo e lo sfruttamento economico. Il lutto sul genocidio del 1994 non è stato ancora rielaborato, manca ancora una condanna unanime nei confronti dei colpevoli e una lettura della storia non basata su un passato comune. Ma il processo a Félicien Kabuga può finalmente aprire una fase nuova, consentendo al piccolo martoriato paese africano di fare finalmente i conti con la propria memoria.

Riccardo Michelucci, giornalista

28 ottobre 2022

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