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Ucraina

la scheda storica di Francesco M. Cataluccio

Terra storicamente disgraziata è l’Ucraina, stretta tra la Russia e la Polonia: un miscuglio talmente confuso, violento ma anche virtuoso, di popoli e lingue da rendere difficile definire dei confini certi. La Russia nasce dall’Ucraina: la cosiddetta Rus’ di Kiev, sorta verso la fine del IX secolo, fu il più antico stato monarchio slavo orientale che si estendeva nel territorio delle odierne Ucraina, Russia occidentale, Bielorussia, Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia orientali. La sua fine avvenne quando, nel 1240, Kiev venne rasa al suolo dai conquistatori tataro-mongoli (che spadroneggiarono in quei vasti territori fino al XV secolo, come mostrò efficacemente Andrej Tarkovskij nel film Andrej Rublëv).

La religione greco-ortodossa giocò un grande ruolo nell’avvicinamento tra i feudatari i ucraini e russi (i moscoviti erano gli esattori per conto dell’Orda d’Oro tartaro-mongola). Nel 1328 il metropolita greco-ortodosso di Kiev abbandonò la sua sede, ormai decaduta, e si trasferì a Mosca, che divenne il centro religioso del Paese. Nel 1277 Daniele, figlio di Aleksander Nevskij, fondò la dinastia dei principi di Mosca e nel 1380 il principe Dimitrij affrontò i tartari, e li sconfisse al Campo delle quaglie (Kulikovo). Il fondatore dello stato russo fu principe di Mosca Ivan III Vasil'evič detto il Grande (1462-1505), che sposando, nel 1472 la nipote dell'ultimo imperatore bizantino, Sofia, diede inizio al mito imperalista (tanto caro anche agli odierni nazionalisti russi) della "Terza Roma”: secondo il quale la Russia sarebbe stata l’erede della civiltà romano-bizantina e, in nome di ciò, avrebbe dovuto conquistarsi l’Europa e un pezzo di mondo.

L’Ucraina nel frattempo era diventata dominio dei polacchi, padroni delle terre, che importarono un gran numero di ebrei, impiegandoli come gestori delle loro proprietà. Fu così che gli ebrei si trovarono ben presto in mezzo al conflitto tra contadini ucraini, appoggiati dai russi, e nobiltà polacca. Nella lotta sanguinosa tra ucraini e polacchi, gli ebrei furono sempre dalla parte dei signori polacchi e quindi costantemente oggetto di manifestazioni ostili da parte dei contadini ucraini e dei cosacchi. Il re Sigismondo I, Granduca di Polonia e Lituania (1506-1548) e il suo successore, Sigismondo Augusto (1548-1572), protessero gli ebrei, garantendo loro eguali diritti e la possibilità di insediarsi liberamente. Ma fu Sigismondo III (1587-1632) che, nel mezzo del conflitto religioso tra Uniati (appoggiati dalla chiesa cattolica) e Ortodossi, per garantirsi l’appoggio delle popolazioni locali, proibì, nel 1619, agli ebrei di risiedere a Kiev concedendo loro di recarvisi temporaneamente soltanto nei giorni di mercato e di fiere.

La situazione peggiorò tragicamente in seguito alle rivolte dei servi della gleba ucraini contro la Confederazione Polacco-Lituana, guidati dall’atamano cosacco Bohdàn Chmel’nitskij (1596-1657), e alla Guerra russo-polacca (1654-1667), detta Guerra di Ucraina, che si concluse con una significativa espansione territoriale russa e segnò l’inizio della sua grande potenza. Bohdàn Chmel’nitskij ottenne sin dall’inizio un importante aiuto da Alessio I di Russia in cambio della sua alleanza, sancita, nel 1654, dal Trattato di Pereyaslav (per festeggiare degnamente il suo trecentesimo anniversario, nel 1954, l’allora segretario del PCUS, Nikita Chruščëv, regalò all’Ucraina la penisola di Crimea che, nel 2014, i russi si sono ripresa).

I cosacchi, nell’immaginario polacco e russo, divennero sinonimo di ucraini. Per capire cosa fossero i cosacchi basta leggersi Taràs Bul’ba (1835) di Nikolàj Gogol’. I suoi eroi combattono contro i polacchi, i tartari, i turchi, gli ebrei e i cattolici, nemici del cristianesimo ortodosso della grande madre Russia, e hanno una ferocia barbarica che si manterrà immutata fino alle imprese della leggendaria Armata a cavallo (1926) di Isaac Babel’ e anche un po’ dopo. Le fruste, come le sciabole, erano le loro armi preferite. Per Gogol’, il cosacchismo era “il vasto irresistibile slancio della natura russa”. Nel suo romanzo, alcuni bambini vengono infilzati nelle lance e gettati con le donne nelle case in fiamme.

La svolta tragica per il destino degli ebrei nell’Impero russo, fu conseguenza dell’attentato che costò la vita, a San Pietroburgo, allo zar Alessando II Romanov (il 13 marzo del 1881, proprio il giorno della firma del Decreto di soppressione delle lingue non russe), a opera di un gruppo di terroristi legati al movimento populista della “Narodnaja Volja” (La Volontà del Popolo). Con la scusa che tra gli autori dell’attentato c’era una ragazza ebrea (Hesia Helfman), iniziarono allora i primi pogrómy (persecuzioni) di massa, incoraggiati dalle autorità russe. Il luogo dove si scatenò, sin dall’aprile di quell’anno, la furia più selvaggia e sanguinaria fu proprio Kiev e la sua provincia. Anche per questo, a partire dal 1897, alcuni ebrei iniziarono ad abbracciare la causa Sionista e a immaginare il loro futuro fuori dall’ “inferno russo”. Molti intrapresero la difficile strada dell’emigrazione verso l’America.

In seguito alla Rivoluzione, nel 1921, l’Ucraina venne incorporata nella Repubblica socialista ucraina. E subito, nel 1922, nella regione ci fu la prima terribile carestia. Ma non fu nulla rispetto a quella che accadde dieci anni dopo. Gli ucraini, essendo milioni di piccoli contadini, religiosi e nazionalisti, non erano considerati dai russi “affidabili”, mostrando di andare in direzione opposta ai piani sovietici. Allora i bolscevichi misero in piedi un programma di collettivizzazione forzata che si spinse ad affamare un’intera popolazione. Ogni ucraino ha in famiglia vittime degli anni trenta e quaranta: morti per guerre, fucilazioni, deportazioni e, soprattutto, per fame.

“Holodomor”, deriva dall’espressione ucraina moryty holodom, che significa “infliggere la morte attraverso la fame”, ed è il nome attribuito alla carestia, non generata da cause naturali, che si abbatté sul territorio dell’Ucraina negli anni dal 1929 al 1933 e che causò circa 7 milioni di morti. O anche di più. Ci sono le testimonianze di qualche osservatore straniero, come il console italiano a Karkhov (oggi Kharkiv), Sergio Gradenigo, che nei suoi rapporti diplomatici sostenne di aver saputo da rappresentanti del governo che i morti erano 9 milioni. Prendendo come riferimento la definizione giuridica di genocidio, e le diverse testimonianze storiche raccolte dagli anni Trenta a questa parte, gli ucraini sostengono che la carestia del 1932-1934 può essere considerata un “genocidio”, provocato dal regime sovietico, guidato all’epoca da Stalin. Nel marzo 2008 il parlamento dell’Ucraina e 19 nazioni indipendenti (tra le quali l’Italia) hanno riconosciuto le azioni del governo sovietico nell’Ucraina dei primi anni Trenta come atti di genocidio. Una dichiarazione congiunta dell’ONU del 2003 ha definito la carestia come il risultato di politiche e azioni “crudeli” che provocarono la morte di milioni di persone. Il 23 ottobre 2008 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione nella quale ha riconosciuto l’Holodomor come “un crimine contro l’umanità”.

Bisogna risalire ai primi anni del dominio sovietico in Ucraina, e raccontare anzitutto la storia, quasi un romanzo, di uno strano personaggio dalla biografia più complicata degli altri rivoluzionari dell’epoca, che avrebbe potuto forse, con la sua intelligenza e apertura, impedire la catastrofe che si abbatté su quella nazione.

Christian Georgevič Rakovskij (1873-1941), alias Chaim Rakeover (il padre era un commerciante ebreo), nacque a Gradets (Bulgaria) e si trasferì, nel 1880, con la famiglia in Romania, dove entrò in contatto con i movimenti socialdemocratici di quel paese. Viaggiò in Svizzera (si iscrisse alla facoltà di medicina di Ginevra nel 1890), Bulgaria, Germania, Francia, Romania e Russia. Durante la Prima guerra mondiale, aderì alla sinistra internazionalista di Zimmerwald. Arrestato nel 1916, in Romania, per attività anti-belliche, venne liberato l’anno successivo dall’esercito russo. Rifugiatosi in Russia si unì ai bolscevichi. Fu tra i fondatori del Comintern e ricoprì varie cariche diplomatiche.Venne nominato presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo dell’Ucraina nel marzo del 1918, e membro del Comitato centrale del partito bolscevico nel 1919. Come Presidente ucraino sviluppò una politica estera indipendente da quella dell’URSS, concludendo diversi trattati commerciali con vari stati dell’Est europeo. Dopo aver rappresentato l’URSS alla Conferenza di Genova (aprile-maggio 1922), nell’aprile del 1923 si oppose alle nazionalizzazioni forzate di Stalin in occasione del XII Congresso del partito. Nel luglio di quello stesso anno gli furono affidati incarichi diplomatici importanti che miravano però ad allontanarlo dai ruoli decisionali del potere. Amico di Trotzkij, divenuto esponente dell’Opposizione di sinistra, fu inviato d’affari del governo sovietico a Londra (dal settembre del 1923) e ambasciatore a Parigi (dal dicembre del 1925 all’ottobre del 1927). Rakovskij fu espulso dal partito comunista nel 1927, e, nel gennaio del 1928, deportato ad Astrakhan, poi a Saratov, ed infine a Barnaul (Kazakhstan), nel 1929. Nel febbraio del 1934 si dichiarò fedele alla linea politica staliniana. Rimesso in libertà, fu sottoposto a controlli continui di ogni genere. Venne arrestato nuovamente nella seconda metà del 1937, ma rifiutò di collaborare con gli inquisitori staliniani per diversi mesi, finché cedette alle pressioni e fu costretto ad autoaccusarsi di collaborazionismo con la Germania nazista, nel corso del Terzo processo di Mosca (marzo 1938). Condannato a vent’anni di detenzione, Rakovskij trovò infine la morte tre anni più tardi in un Gulag, fucilato per ordine di Stalin. Di quel pentimento estorto a Rakovskij con le torture, durante l’interrogatorio alla vigilia del processo del 1938, i cui materiali non sono mai emersi dagli Archivi dell’NKVD, circola in rete una paranoica ricostruzione (basata su una trascrizione di 50 pagine, pubblicata negli anni cinquanta a Madrid, col titolo Sinfonia rossa), nella quale egli avrebbe svelato di “essere stato a conoscenza di una congiura tedesco-ebraico-sovietica, promossa dal Circolo Rothschild-Illuminati, che prevedeva di utilizzare il comunismo per stabilire nel mondo una dittatura dei ricchi ebrei”...

Di paranoie, dalle conseguenze assai più tragiche, in quegli anni ne circolarono parecchie. Gli ucraini, essendo milioni di piccoli contadini, religiosi e nazionalisti, non erano considerati dai russi “affidabili”, mostrando di andare in direzione opposta ai piani sovietici. Allora i bolscevichi misero in piedi un programma di collettivizzazione forzata che si spinse ad affamare un’intera popolazione.

Lo scrittore Vasilij Semënovič Grossman (1905-1964) era nato a Berdicev (Berdyčiv), a circa 250 chilometri a sud di Chernobyl, che aveva anche dato i natali, nel 1857, allo scrittore anglo-polacco Joseph Conrad (alias Józef Konrad Korzeniowski). Fino alla Prima guerra mondiale, Berdicev era un importante Shtetl ucraino (circa 80% della popolazione era ebrea): dal 1861, con 41.617 abitanti ebrei, era infatti la seconda comunità ebraica dell’Impero russo. Grossman, a differenza ad esempio di Bulgakov, aveva creduto nel comunismo e aveva anche fatto parte della nomenklatura intellettuale sovietica. Quindi, anche nel momento dell’amara resa dei conti con un sistema violento e corrotto, era in grado di capire lucidamente certe motivazioni dei suoi rappresentanti. Dice Grossman nel suo romanzo Tutto scorre..., scritto fra il 1955 e il 1963 e pubblicato postumo in Germania occidentale nel 1970 (Adelphi, 1987): “Arrivarono gli anni Trenta, i giovani, i combattenti della guerra civile si erano fatti uomini quarantenni, dai capelli argentati. Per loro il tempo della rivoluzione, dei comitati dei contadini poveri, del primo e del secondo congresso del Comintern era stato il tempo giovane, felice, romantico della loro vita. Stavano in uffici forniti di telefoni e segretarie, portavano giacca e cravatta in luogo dei giubbotti, andavano in automobile, avevano imparato ad apprezzare il buon vino, le vacanze [...]. E purtuttavia la stagione dell’Armata rossa di Budënny, delle giacche di cuoio, della polenta di miglio, degli stivali sfondati, delle idee planetarie e della comune mondiale, restava la stagione sublime della loro vita. Non per amore delle auto e delle dacie essi costruivano un nuovo Stato. Per amore della rivoluzione e di un nuovo mondo, senza proprietari terrieri e capitalisti, immolarono vittime, compirono crudeltà e violenze”.

L’uomo che mise in atto i progetti di Lenin e Stalin fu Lazar’ Moiseevič Kaganovič (1893-1991), figlio di una povera famiglia ebrea ucraina. Da giovane lavorò come calzolaio e, a soli 18 anni, nel 1911, aderì al Partito comunista, dove ricoprì numerosi incarichi tra i quali quello di Vice Presidente dell’Unione Sovietica e di membro del Comitato Centrale del Partito. Fu poi ministro dell’agricolura. Cognato di Stalin, fu uno dei maggiori protettori dell’ucraino Nikita Sergeevič Chruščëv, fino a quando quest’ultimo, salito al potere per avviare il processo di destalinizzazione, non lo sacrificò, togliendogli ogni carica. Però, addossando tutte le colpe a Stalin, evitò di trascinarlo in un processo dagli esiti pericolosi: Kaganovič infatti aveva condiviso tutte le scelte di Stalin ed era stato tra i principali responsabili della carestia in Ucraina negli anni 1932-1933. Dopo l’allontanamento, Kaganovič rimase nell’ombra e nel silenzio, fino a un’intervista a “La Repubblica” (5/X/1990), l’anno prima di morire, dove ribadì il suo granitico punto di vista. Enrico Franceschini gli chiese: “Non ha mai avuto ripensamenti sugli arresti di quell’era, sulle violenze e le vittime della campagna di collettivizzazione delle campagne?”. Kaganovič rispose: “Il primo punto da ricordare è che la collettivizzazione fu il proseguimento di una linea leninista. Ci furono degli eccessi? Sì. Ma dove e quando non ci sono? Ci sono sempre. Quando combatti una guerra, è difficile stabilire in anticipo quante cartucce sparerai. Il nemico occupa una nostra città, dobbiamo riprenderla. Ma dentro la città c’è la nostra gente, degli innocenti che potrebbero essere uccisi nell’attacco. L’esercito griderà ugualmente: all’assalto, perché così deve essere, in tutti i tipi di guerra. Sì, il risultato è che soffrono anche gli innocenti. Ci furono vittime innocenti nella collettivizzazione delle terre. Ma c’erano anche i contadini ricchi, influenti, legati alla chiesa, che perturbavano, ostacolavano. Cosa si doveva fare? E nell’industria c’erano i sabotaggi. Oggi molti storici lo negano, ma era vero. Il sabotaggio c’era, e, dirò di più, c’è anche adesso”.

L’ “Holodomor” iniziò (ammesso che certi fenomeni possano avere un inizio preciso e facilmente spiegabile) perché interi villaggi contadini si opposero al progetto di collettivizzazione delle campagne, previsto dal Primo piano quinquennale del 1929. Perciò tutti i contadini (piccoli, grandi e medi) che non accettarono di sottomettersi alla collettivizzazione, vennero bollati, con una campagna di denigrazione molto violenta, come “kulaki” (proprietari), e, soprattutto in Ucraina, vennero trattati come dei veri e propri nemici: caricati a forza sui treni e deportati lontano, con il risultato di impoverire ancor di più le campagne. Ma questi metodi rischiavano di riproporre i problemi sorti già nel 1923, quando si era fatto un primo tentativo di “sistemare i contadini”. Il potere sovietico era stato poi costretto a fare una parziale marcia indietro e frenare lo zelo repressivo dei propri miliziani. Stavolta, anche i comandanti dell’Armata rossa (non ancora “normalizzati”) esprimevano dei forti dubbi sull’utilizzo dei soldati nel reprimere il malcontento contadino. Quindi la collettivizzazione venne rallentata. Così, dal 55% dei terreni collettivizzati del 1929 si scese al 22% nel 1930. Per tornare però al 50% nel 1931 e al 60% nel 1933. Nel 1934, il soviet rurale annunciò che i “kulaki” (che, nel 1928, venivano stimati in 5,6 milioni) erano diventati 149.000.

Grossman, sempre in Tutto scorre…, chiarisce bene come si inceppò la fragile macchina del potere bolscevico e iniziò a produrre fame e sangue. Di fronte al pericolo di nuove carestie, fu chiesto uno sforzo che era impossibile realizzare, proprio perché, per ragioni ideologiche, era stata compromessa la capacità produttiva della campagna, soprattutto di quella ucraina, fondamentale per la riuscita del Piano economico: “Dopo la liquidazione dei kulaki (tra il ’29 e il ’30) la superficie coltivata si era assai ridotta e il rendimento s’era abbassato; dai bilanci risultava invece che senza i kulaki la nostra vita era fiorita di colpo. Il Soviet di villaggio mentiva col distretto, il distretto con la regione, la regione con Mosca. Tutto come si deve (...). E a noi, al nostro villaggio, fissarono una quota che neanche in dieci anni avremmo potuto raggiungere! Al Soviet del villaggio anche quelli che non erano usi a bere andavano a ubriacarsi, per vincere la paura. Si vede che Mosca sperava soprattutto nell’Ucraina. E fu più di tutto con l’Ucraina che se la presero, più tardi”.

Lo scrittore Isaak Ėmmanuilovič Babel' (1894-1940), al seguito dell’Armata a cavallo (cfr: I. Babel’, L'armata a cavallo e altri racconti, Einaudi, Torino 1969) nella guerra russo-polacca del 1920, ebbe modo, andando su e giù per l’Ucraina, di scoprire, lui ebreo non ricco della ricca Odessa, il mondo un po’ misterioso delle comunità hassidiche. A Žitomir capitò nella poetica bottega di cianfrusaglie antiche di un vecchio che si chiamava Gedali: “Si aggira in mezzo ai suoi tesori nella rosea vacuità della sera, piccolo bottegaio con gli occhiali affumicati e una palandrana verde lunga fino ai piedi. Si stropiccia le manine bianche, si stuzzica la barbetta grigia e intanto, chinando il capo, presta ascolto a invisibili voci che gli giungono al volo”. Quel commerciante gli pose la domanda, sulla possibilità o meno di conciliare Rivoluzione ed Ebraismo, che accompagnerà Babel’ per tutta la vita (e come lui, allora, molti scrittori russi di origini ebraiche): “Alla rivoluzione diremo di sì, ma dobbiamo forse dire di no al sabato?”. Gedali portò poi Babel’ dal Rabbi Motale, ultimo Rabbi allora della dinastia di Chernobyl: “Motale sedeva a tavola circondato da ossessi e impostori. Portava in capo un berretto di zibellino e una bianca veste da camera stretta da una cordicella, e frugava con le magre dita la gialla peluria della barba e mi disse: ‘Lo sciacallo urla quando ha fame, a ogni sciocco basta la propria stoltezza per abbandonarsi allo scoraggiamento, e soltanto il saggio sa lacerare con il riso il velo dell’esistenza...’ ”.

Istintivamente vicino al popolo, e profondamente legato alla cultura dei suoi avi, Babel’ trovò nella rivoluzione bolscevica una sintesi identitaria e la certezza di una seconda appartenenza altrettanto solida quanto la prima, quella ebraica. Il personaggio principale del ciclo di racconti L’armata a cavallo è in realtà lo sradicamento e la nostalgia ebraica, che hanno visto aprirsi la speranza di obliarsi in una grande causa comune. Che questa speranza fosse irrealizzabile, che la causa comune ‘condita dal sangue migliore’ si sarebbe rivelata un enorme pantano di sangue, Babel’ non lo sapeva ed è assurdo rinfacciarglielo. Però Babel’, con i suoi racconti, contribuì alla falsa leggenda che fece del giovane arrogante, sanguinario e incapace cosacco Semën Budënny (1883-1973) un eroe. Ma il generale dell’Armata a cavallo non si accontentò che Babel’avesse messo la sordina ai suoi massacri, e lo attaccò, nel 1924, per aver scritto “chiacchiere da donnetta” e “irresponsabili fandonie”, e nel 1928, sulle colonne della “Pravda”, ac- cusandolo di non essere un autore marxista “seppure immaturo” e di aver prodotto con L’armata a cavallo “una sconcia caricatura intrisa del più puro spirito piccolo borghese”. Il 15 maggio del 1939 Babel’ venne arrestato dall’NKVD a Peredelkino con l’accusa di seviazionismo trozkistae gli venenro sequestrati tutti i manoscritti. Il 17 marzo del 1941 si ritiene (in base a un comunicato ufficiale del 1956) che venne fucilato in un campo di prigionia stalista.

Nel 1930, compiendo un viaggio nell’Ucraina della collettivizzazione forzata, Isaac Babel’ scrisse ai parenti (il 16 febbraio) di averne riportato un’impressione entusiastica, soprattutto per la grandiosità dell’esperimento che “sorpassa tutto quanto abbiamo visto ai nostri tempi”. Evidentemente era ben cosciente, come si può dedurre da tutto il suo epistolario, che la Censura leggeva tutte le lettere. Infatti, nelle conversazioni private, raccontava un’altra storia. Secondo quanto riferito dallo scrittore di origine ungherese Erwin Sinko, che nel 1936 coabitò con lui a Mosca, Babel’ gli raccontò di aver provato in quei luoghi il senso di un’allucinazione terrificante la cui origine continuava a restargli incomprensibile, finché una notte non si svegliò di soprassalto e comprese di esser stato svegliato dal silenzio percepito nei villaggi visitati: “villaggi dove non solo non c’era più neanche una vacca, ma nemmeno maiali e galline, e neppure cani, nessun animale vivente”. (E. Sinko, A Novel about a Novel. Moscow Diary, in: Isaac Babel’s Selected Writings, Norton & co, New York 2009).

La descrizione della fame contadina ucraina che fa Grossman, nel 1956 (mentre allora, nel 1933, non aveva visto né detto niente), è terribile: “A certi invece dava di volta il cervello, non si calmavano fino alla fine. Li riconoscevi dagli occhi, lucidi. Erano loro quelli che facevano a pezzi i morti e li cuocevano, uccidevano i propri figli e li mangiavano. Si risvegliava in loro la belva, quando l’uomo moriva. Ho veduto una donna, l’avevano portata sotto scorta al centro distrettuale. Il suo viso era di un essere umano, ma aveva gli occhi di un lupo. Dicono che questi li han fucilati tutti quanti. Ma non eran loro i colpevoli, colpevoli erano quelli che riducevano una madre al punto di mangiare i propri figli [...] È per il bene dell’umanità che loro hanno ridotto le madri a quel punto”.

Igort, l’attuale direttore del mensile “Linus”, con la graphic novel Quaderni ucraini. Memorie dai tempi dell’Urss (Mondadori, 2010) ci ha dato un documentato reportage storico, disegnato, di quella tragedia. Raccogliendo testimonianze, in vari soggiorni in Ucraina tra 2008 e il 2009, Igort è riuscito a ridare vita a storie, uniche e allo stesso tempo esemplari. L’ottantenne Serafina Andreyevna inizia a raccontare: “Avevo tra i 4 e i 5 anni quando la carestia arrivò...”. È come se parlasse di una grandinata, qualcosa contro la quale i contadini sanno bene che non ci si può ribellare: arriva e basta, si può solo cercare di limitarne i danni. In poco tempo la fame divenne l’ossessiva protagonista di tutto. Il cannibalismo fu una pratica diffusa: “rapivano i bambini, persino gli adulti e li uccidevano per mangiarli”. E anche i morti per fame venivano utilizzati: “C’erano dei bambini con cui giocavo... Morirono uno dopo l’altro. Quando questo avveniva tutti sapevano già... Non c’erano funerali, niente del genere. La casa veniva chiusa e poco dopo vedevi i camini fumare. Era un mondo triste quello in cui la morte di qualcuno portava speranza a qualcun altro”. Poi c’è la storia di Nikolaj Vasilievich, che vende al mercato gli oggetti di casa. La sua è una “memoria dal sottosuolo” reale, di un ucraino medio, sfiancato dalla vita, e dalla malasorte in amore, in salute e nel lavoro, dalla cattiveria degli altri: “All’epoca di Stalin la gente doveva dare ogni anno al kolkoz 300 litri di latte, 50 chili di carne, 300 uova. Ogni casa doveva produrre quel tanto, indipendentemente da quanti ci abitavano. (...) Mia madre era sola, non sarebbe mai arrivata a produrre abbastanza. Neppure se lavorava durissimo. Era un incubo”. Infine: Maria Ivanovna, ridotta a pesare, per pochi spiccioli, la gente al mercato. Da bambina vide, nel 1933, “i carri passare in città, con i cadaveri ammassati, nudi; c’era qualcuno ancora vivo, che cercava di liberarsi, ma era troppo debole per riuscirci; li scaricavano in fosse comuni, venivano lasciati cadere, tutti insieme, per essere ricoperti da poche manciate di terra...”.

Poi arrivarono, nel 1941, i tedeschi che inizialmente vennero accolti da gran parte della popolazione come liberatori. Fu invece la devastazione finale dell’Ucraina, con un milione di ebrei assassinati dalle Einsatzgruppen, dalla Wehrmacht e dai colaborazionisti ucraini inquadrati nella milizia. Nella sola Odessa furono massacrati 50.000 ebrei; nel fossato di Babij Jar, tra il 29 e il 30 settembre sempre del1941, furono ammazzati 33.771 ebrei di Kiev (e per molti anni non ci fu nemmeno una lapide commemorativa, come ricordarono il poeta russo-ucraino Evgenji Evtušenko e il compositore Dmitrij Šciostakovič, con la sua Tredicesima Sinfonia, 1962).

Alla fine della guerra, l’Ucraina contò 4 milioni e mezzo di morti e 2 milioni di deportati come schiavi (200.000 rimasero in Occidente). Se ad essi si aggiungono i 7 milioni di morti tra deportazioni, fucilazioni e fame (Holodomor), si ha un quadro del numero enorme di vite che furono spezzate in quella regione. Dopo la guerra mondiale, nelle foreste dell’Ucraina si protrasse fino al 1950 una strisciante, e violenta, guerra condotta dall’esercito e le forze di sicurezza sovietiche contro le formazioni indipendentiste clandestine dell’UPA, l’ala militare dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (il cui capo era Stepan Bandera, assassinato nel 1959 a Monaco di Baviera da sicari di Mosca), guidata dal generale antisemita Roman Shukhevich (1907-1950).

Nonostante che molti dirigenti del PCUS, a cominciare da Nikita Chruščëv a Leoníd Bréžnev fossero ucraini o molti legati ad essa, anche dopo la destalinizzazione continuò un rapporto di sfruttamento sconsiderato di quella terra nera che potenzialmente potrebbe essere il “granaio d’Europa” e un’ industrializzazione senza regole e sicurezze (di cui la tragedia della centrale atomica di Černobyl', il 26 aprile del 1986, è stata la catastrofica punta dell’isberg: nel film intervista, del 2018, del regista tedesco Werner Herzog, Gorbaciov dichiara solennemente che “la fine dell’’Urss è iniziata con Černobyl'”).

La Russia ha vissuto malissimo l’indipendenza dell’Ucraina, molto più del distacco delle altre nazioni sovietiche. Anche là, come ad esempio in Lettonia, è rimasta una considerevole comunità russofona che si è sentita abbandonata e discriminata. In una conversazione telefonica del 1° dicembre 1991, giorno del referendum sull’indipendenza dell’Ucraina, riportata nel diario del principale consigliere di politica estera dell’ultimo presidente dell’Unione Sovietica, Anatolij Černjaev si leggono in filigrana tutti i problemi che sono riemersi oggi:

“[George Bush] passò al tema dell’Ucraina. A lungo spiegò la sua posizione… M.S. [Mikhail Sergeevič Gorbačëv], a sua volta, gli ripeteva la sua concezione: “L’indipendenza non è la separazione”, e la separazione è “Jugoslavia” al quadrato, al decimo grado! Bush era molto prudente, ha assicurato due volte che non avrebbe fatto nulla che potesse mettere “Michael” [Gorbačëv] e il ‘Centro’ [il governo dell’Unione Sovietica] in una situazione imbarazzante. Una volta ha perfino detto: “Ostacolerebbe il processo di riunificazione dell’Unione”. Era evidente (ha detto che avrebbe telefonato anche a El’cin) che lo preoccupava particolarmente la possibilità di “processi violenti” a causa della Crimea, del Donbas… L’accenno di M.S. a questo problema è stato accompagnato dalla replica di Baker (lui, Scowcroft e Hewitt erano a dei telefoni paralleli): Sì, sì, è molto pericoloso… Evidente: Baker è più libero nei giudizi, meno soggetto alla pressione di lobbisti, più aperto! È finita con Bush che ha augurato a Michael successo nell’opera molto difficile “della riunificazione” (da: “Limes”, n. 4, 2014).

Il difficile assestamento dell’economia postsovietica ha ulteriormente impoverito le campagne (in certe zone del sud dell’Ucraina si assiste al crescente fenomeno di donne che lasciano le famiglie e vanno a lavorare all’estero, mantenendo mariti disoccupati o non interessati a lavorare e dediti spesso all’alcolismo), arricchendo pochi magnati (esattamente come in Russia), ingigantendo la corruzione, dando sempre più spazio a investimenti dall’estero di dubbia natura. Le violente manifestazioni pro-europee, dette Euromaidan, iniziate a Kiev nella notte tra il 21 e il 22 novembre 2013, all'indomani della sospensione da parte del governo dell'accordo per una Zona di libero scambio globale e approfondito (DCFTA) in tra Ucraina e l'Unione europea, hanno mutato ulteriormente la situazione. In particolare il 30 novembre 2013 ci fu un’ escalation di violenza a seguito dall'attacco delle forze governative contro i manifestanti. Le proteste sfociarono nella cosiddetta “Rivoluzione ucraina” del 2014 e, infine, alla fuga e alla messa in stato di accusa del presidente filorusso Viktor Janukovyč. Come sempre accade, in quella piazza c’erano varie anime: molti giovani che chiedevano un vero cambiamento della vita politica; intellettuali e profesionisti stanchi della crescente corruzione; nazionalisti che pretendevano una maggiore indipendenza della Russia; gruppi paramilitari di destra. La propaganda, anche in Occidnete, ha fatto di erba un fascio. E la Russia ha soffiato sul fuoco aizzando i russofoni nella parte orientale del paese, dove ci sono le grandi industrie minerarie e uan classe lavoratrice tutto sommato meglio retribuita rispetto ai lavoratori nelle campagne. In quelle regioni (Donetsk e Lugansk, nel Donbass, che ora la camera bassa russa, Duma, ha appena riconosciuto come autoproclamate repubbliche popolari, filorusse e quindi “intoccabili” nel loro desiderio di riunirsi alla madrepatria) è iniziata una guerriglia definita eufemisticamente a “bassa intensità”, con la partecipazione di mercenari e elementi delle truppe speciali russe, che potrebbe costituire in ogni momento l’occasione di un intervento dello truppe di Mosca. Hanno purtroppo ragione gli ucraini intervistati, in queste settimane, per strada: “la guerra c’è già e dura da otto anni”.

Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

11 marzo 2022

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