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Io, curda in fuga dal carcere e da un matrimonio forzato

La testimonianza di una giovane donna richiedente asilo


Questa storia è parte di "Memoria e percorsi curdi", una serie di storie di richiedenti asilo di origine curda in fuga dalla Turchia. Il progetto è curato in collaborazione con l'associazione Dare.ngo di Milano. Tutte le storie sono totalmente vere, ma per motivi di sicurezza nomi e località potrebbero essere stati modificati.

Mi chiamo Kilda e vengo dalla provincia di Adiyaman, una città del sudest della Turchia. Una volta, sotto gli ottomani, si chiamava Hısn-ı Mansur ("Castello di Mansur"). Ma siccome per le persone del posto il nome ufficiale era difficile da pronunciare, venne deciso di chiamarla adı yaman (il luogo il cui nome è duro), forse per la cattiva reputazione di cui la provincia godeva a causa del terreno difficile e del banditismo diffuso. E alla fine, come succede quando una diceria si sedimenta, nel 1926 questo termine fu adottato come nome ufficiale della città. Chissà se è una coincidenza che da noi arrestino così tante persone con l'accusa di terrorismo.

Ad ogni modo, la maggioranza della popolazione di Adiyaman è curda, ma per la politica di assimilazione questo non conta più. Siamo solo potenziali terroristi. La mia famiglia ha vissuto con l'ansia che mi accadesse qualcosa, a causa della mia passione politica. Seguivo tutti i dibattiti dei partiti di opposizione e sin dall'adolescenza rivendicavo con orgoglio la mia identità curda.

Per evitarmi (o evitarsi) grane, decisero di fare la cosa più ovvia che si fa in questi casi: mi trovarono un marito. A 17 anni, ancor prima di terminare il liceo, i miei genitori "festeggiarono" il mio fidanzamento ufficiale. Con una persona che io non ho mai amato, con il quale non avevo mai condiviso niente. Mi costrinsero a interrompere gli studi, una ferita ancora aperta che mi provoca molto dolore.

Nel frattempo la mia attività politica non si fermava e il rischio di venire arrestata, come stava già succedendo a tanti miei amici, diventava più evidente. Non so davvero se la pressione più forte veniva dalle ingiustizie che ho subito dalla mia famiglia o dal governo che mi voleva dietro le sbarre.

Per fortuna i miei fratelli e le mie sorelle seppero capire quanto dolore portavo con me. Così un giorno, prima del matrimonio sono scappata grazie al loro aiuto. Non sapevo che la mia fuga mi avrebbe portato problemi ancora più grandi, in un paese dove la cultura patriarcale predominante porta a considerare la donna solo come una preda o un oggetto da portare con sé.

Dopo mille peripezie sono in Italia. Qui non rischio il carcere e non sono costretta a sposarmi. La sfida adesso è sperare di ricevere la protezione internazionale e non venire rispedita in Turchia. Voglio vivere come una donna libera, come una donna curda libera.

Joshua Evangelista, Responsabile comunicazione Gariwo

5 giugno 2020

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