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Due lire

Il racconto di Filippo Boni

Un cassettone di legno austero. Sopra un centrino, un portagioie d’argento, una foto a colori tenui dei miei genitori sposi e il portafoglio del nonno, tenuto chiuso da un elastico giallo. Io bambino. Ricordi che vanno e che vengono. Luci che si accendono e si spengono.

La domenica mattina dopo la messa entravo in camera da letto dei nonni e trovavo sempre lo stesso scenario: la serranda della finestra abbassata fino a metà e tenuta sollevata da un mestolo, il letto rifatto, l’armadio chiuso, un baule, una sedia con qualche vestito stirato da poco e quel cassettone. Con sopra uno specchio a cui fare linguaccia. Siccome il portafoglio del nonno “per educazione” (almeno così mi dicevano) non andava toccato, io me la rifacevo con il portagioie. Mi divertivo a capovolgerlo ed a giocare con catene e vezzi vecchi non so di quanti anni.

Una mattina, quel portagioie mi cadde per terra; non si ruppe, ma il tonfo sordo sulle mattonelle grigie lo sentirono anche due stanze più in là, in cucina. Entrò il nonno e mentre raccattavo tutto alla svelta pensai che si sarebbe arrabbiato. Ma mi sbagliavo. Sorrideva. “Giocaci sopra al letto con il portagioie, così non ti casca più”, mi disse. Ma non se ne andò. Si mise a sedere sulla sedia e mi chiese di passargli il portafoglio chiuso sempre con quell’elastico giallo. “Nonno ma perché il tuo portafoglio sta sempre chiuso con l’elastico giallo - gli chiesi -, perché ci sono troppi soldi dentro?”. Lui rise. “Magari” rispose. “Il portafoglio lo chiudo con l’elastico perché dentro porto sempre con me una cosa che non posso perdere. La cosa più importante di tutte”. “E che cosa c’è dentro la chiave di casa?” chiesi. “No, no, la chiave la tengo in tasca. C’è una cosa più importante dentro”. Mentre mi rispondeva sfilò l’elastico ed i miei occhi non si staccarono dalle sue mani. Aprì la tasca interna degli spiccioli ed estrasse una moneta che mi passò. “Ma questa è solo una moneta nonno, tu scherzi”. Il nonno tacque. Quando la presi in mano per guardarla meglio vidi che io una moneta così non l’avevo mai vista. Era più grande e più spessa di quelle da “cento lire”. Di argento lucido lucido. Da un lato aveva una quadriga in bassorilievo e dall’altro il profilo della testa di un uomo serio con i baffi con sotto la scritta “Vittorio Emanuele III re d’Italia” e l’anno: “1916”. “Ma questo soldo è vecchio nonno. O a che ti serve?”. Gli chiesi. Il nonno lì per lì non rispose. “Questo non è un soldo, ma un pezzetto di cuore”, disse. Ma non capivo. 

L’hai mai sentito dire il nonno Annibale?”. “Si, il tuo babbo”, risposi. “Questo era suo. Quando lo vidi per l’ultima volta avevo 19 anni e lavoravo nella sua bottega, in macelleria. Era il 3 luglio del 1944, durante la guerra. Quella sera chiudemmo la macelleria insieme e ci avviammo verso casa. Quando arrivammo alla porta arrivò un uomo, un mio amico che mi chiese se potevo andare con lui alla svelta. Dissi al babbo che sarei tornato dopocena, di avvertire la mamma e tutti gli altri in casa. In realtà quella sera non tornai, quel mio amico mi portò alla “Casa al Monte”, uno dei rifugi dei partigiani, nei boschi, perché avevano bisogno di un macellaio che gli ammazzasse un vitello, loro non sapevano da che parte rifarsi. Il babbo che la sera non mi vide tornare non lo so cosa pensò. Ma io non mi preoccupavo, sicuro che sarei tornato a casa la mattina dopo. Ma mi sbagliavo. Il 4 luglio alle cinque di mattina i soldati tedeschi entrarono in paese e cominciarono a portare tutti gli uomini in piazza, per fucilarli. Io ero al sicuro nei boschi e ancora non sapevo nulla. Il babbo non lo presero. Era furbo e aveva capito che da qualche giorno non c’era aria buona in paese con i soldati. Andò con altri uomini suoi vicini di casa a rifugiarsi in un deposito dell’acqua poco fuori dal villaggio, prima che i tedeschi entrassero in casa sua. I miei fratelli erano tutti in miniera, nelle gallerie, nascosti. Ma il babbo pensava a me. Non mi aveva visto tornare a casa la sera prima, era preoccupato, aveva paura che i soldati mi potessero prendere. Mi raccontarono che non si dava pace, dentro quel deposito. Diceva che voleva venir via, aveva paura per me. Gli altri lo trattenevano, tentando di convincerlo che io ero al sicuro. Ma non c’era verso. Non si teneva. Ad una cert’ora i soldati iniziarono a mitragliare. Lo sentimmo anche noi, lassù, in cima al monte. Si alzò un urlo indescrivibile. Una voce sola. E poi silenzio e odore di bruciato. Ma Annibale a quel punto si era già ribellato. “Se c’è Giuseppe lo devo salvare oppure morirò anch’io”, disse agli altri. Scappò dal nascondiglio e corse verso la piazza, alcuni testimoni lo hanno visto bene dalle finestre. Appena arrivò e vide gli uomini bruciare tentò di ribellarsi contro i soldati. Non era un tipo facile, aveva un caratteraccio.

Lo chiamavano “Rogantino” mica per caso.

Lo bloccarono e gli conficcarono un pezzo di ferro in bocca, per farlo stare zitto. Poi qualcuno gli sparò in gola. E poi lo gettarono sopra a tutti i cadaveri bruciati, a braccia aperte.
Era morto per me. Perché aveva paura che fossi con tutti gli altri. Quando una settimana alcuni abitanti tornarono in paese per seppellire i morti, per primo videro lui, che non era bruciato. Con il suo corpetto e la catena della cipolla che gli pendeva dal taschino. In tasca gli trovarono queste due lire. Questo soldo che hai in mano te. Con la catena di quell’orologio che i tedeschi gli rubarono, è l’ultima cosa e l’ultimo ricordo che ho di lui. Prima di perdere questo soldo perdo la vita”.
Luci che si accendono e si spengono. Ricordi di “io bambino”, del nonno seduto su quella sedia in camera di una domenica mattina dopo la messa, di quel soldo che per niente al mondo avrebbe barattato.
La vita mio nonno l’ha persa qualche anno dopo, un giorno di novembre, due giorni prima che compissi sedici anni. Quel soldo non l’ha perso mai ed io non ho perso i ricordi, né di lui, né della sua vita.

Quell’urlo che portò via la vita a 191 persone in poco più di un'ora e che si alzò dai paesi di Meleto Valdarno, Castelnuovo, Massa e San Martino, nel Comune di Cavriglia, in Toscana, la mattina del 4 luglio 1944, io non l’ho mai dimenticato anche se non l’ho mai sentito perché sono nato trentasei anni dopo.

Quel racconto, quel segreto in un taschino del portafoglio chiuso da un elastico neppure. E la voglia di tradurlo quell’urlo, di dargli voce per farlo sentire a chi non l’aveva sentito come me, tradurlo in qualche parola d’italiano, in una parolaccia, in un racconto, in un disegno, in una storia, in un libro, mi è sempre cresciuta dentro, ogni giorno di più.

L’ho coltivata come un fiore. Forse anche perché vivo a Meleto, in una casa che ospita sul suo lato sud e sul suo nato nord due aie, con due fienili, dove quella mattina i tedeschi, fucilarono e bruciarono cinquanta contadini che non sapevano certo scrivere, ma che però sapevano pregare e non certo odiare. Per me quella storia divenne una ragione di vita. A tal punto che per anni ho studiato i risvolti di quel massacro e di tutti quelli avvenuti in Provincia di Arezzo ed in Toscana in quegli anni. Quei massacri di cui si macchiò la Wehrmacht durante la ritirata aggressiva avvenuta in Italia nel 1944. Studiando le carte emerse dagli archivi inglesi e dall'armadio della vergogna sono spuntati nomi, cognomi e foto dei responsabili di quelle stragi. Li pubblicai nella mia tesi di laurea che poi, nel 2007, grazie al Consiglio Regionale della Toscana divenne un libro. Una risposta al passato, quasi settant'anni dopo. Uno schiaffo sordo.

La nostra gente avrebbe capito e visto i colpevoli di quelle stragi per la prima volta. Appurammo che erano quasi tutti morti sotto i bombardamenti di Dresda nel 1945, poco tempo dopo la scia di sangue di eccidi civili in Italia. Non c'era possibilità di imbastire nessun processo, ma almeno abbiamo restituito un senso ad una storia interrotta.

In quelle aie del massacro continuano a crescere fiori, ogni primavera.

Qualche primavera fa la nonna mi ha chiamato in camera. Che non è la stessa camera di quella domenica mattina di tanti anni fa, ma c’è lo stesso letto rifatto, lo stesso armadio, lo stesso baule, la stessa sedia con i panni stirati da poco e soprattutto, lo stesso cassettone e lo stesso portagioie. Manca il nonno seduto sulla sedia, e manca il portafoglio del nonno e il suo elastico giallo.

Se ne sono andati con lui dieci anni fa.

La nonna aveva saputo che stavo scrivendo un libro sui fatti del 1944 da poco. Aveva aperto quel cassettone senza che le chiedessi niente, aveva estratto la catena dell’orologio di Annibale, recuperata sul suo corpo, quella mattina e me l’aveva appoggiata sul palmo della mano. “Così si chiude un giro”, mi aveva detto, “le due lire ce le aveva tuo babbo”.

Già. Le due lire ce le aveva il babbo, custodite in un cassetto del comodino di camera sua, io la catena. Il babbo che sette anni fa se n'è andato anche lui, troppo presto, lasciandoci soli.

Due frasi dal suo letto in una camera sciapa d'ospedale, con un filo di voce, qualche giorno prima di andarsene, mentre l'infermiera cambiava la flebo e il sole filtrava da sotto la tendina.

Mi raccomando, le due lire ora sono tue”.

Il testimone del tempo è passato. Esiste un ponte trasparente che lega la nostra piccola storia d'amore, un ponte che parte dalle mani di Annibale e che finisce sulle mie. Un ponte che servirà anche a non dimenticare quell’urlo, di quella mattina.

E se un giorno, qualcuno, mi dirà che “valgo due lire”, non solo mi dirà la verità, ma mi farà il regalo più bello del mondo.

7 giugno 2016

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