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L’Indipendenza e la Nakba

legate fra loro e inseparabili

Avraham Burg

Avraham Burg

Presentiamo, tradotto in italiano, l'articolo odierno su Haaretz dell'ex Presidente del Parlamento israeliano Avraham Burg per la giornata dell'indipendenza israeliana. In questa giornata i palestinesi commemorano le persone uccise e scacciate nel 1948, spiega Burg. È importante che oggi questa data sia un'occasione di unire le memorie degli ebrei israeliani e palestinesi, anche per contrastare le derive autoritarie ed "etniciste" di Israele, che a volte dànno vita a incresciose accuse a Tel Aviv di praticare "l'apartheid". Proprio come la fine del regime sudafricano significò un momento di verità e giustizia, anche in Israele celebrare l'Indipendenza deve comprendere anche una riflessione sulla "catastrofe" del popolo palestinese".  

La Festa dell’Indipendenza di Israele è anche il Giorno della Nakba. A ciò non si scappa. La realtà dell’identità israeliana non può fare a meno di incorporare non solo la narrazione ebraica ma anche quella palestinese (Nakba, o “catastrofe”, è il termine palestinese per quel che è accaduto a quel popolo quando lo Stato israeliano è stato fondato, nel 1948).
Per ragioni di spazio non possiamo qui analizzare tutte le complesse interrelazioni tra l’Indipendenza e la Nakba, ma la questione centrale oggi non è: “Di chi è la colpa?” o “Chi ha cominciato?” o “Chi non ha fatto abbastanza?”. La questione cruciale è essenzialmente pratica: “La Nakba e l’Indipendenza possono coesistere nello stesso spazio?”

Se la risposta del pubblico ebraico-israeliano è che le due si escludono a vicenda, ne consegue che dovremmo revocare le clausole della Dichiarazione d’Indipendenza che sanciscono l’eguaglianza fra tutti: “Lo Stato di Israele.. favorirà lo sviluppo del Paese a beneficio di tutti i suoi abitanti.. assicurerà la completa eguaglianza dei diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza riguardo alla religione, alla razza o al sesso; garantirà la libertà di religione, coscienza, lingua, educazione e cultura; salvaguarderà i luoghi santi di tutte le religioni …”

Se la risposta è che Indipendenza e Nakba non possono coesistere, Israele diventa lo stato di tutti i suoi ebrei, con tutto ciò che questo implica. Ebraico, sì, ma molto meno democratico; molto più etnico, molto meno civile. Forse, però, nonostante tutto, una risposta positiva è possibile, una che permette un’esistenza comune, basata sul mutuo rispetto, che dia fede e rilevanza a entrambe le narrazioni, una felice, l’altra dolorosa, l’una accanto all’altra. È chiaro che Israele e il modus operandi israeliano hanno un disperato bisogno di un percorso completamente differente da quello che è stato indicato per quasi settant’anni. La Nakba deve essere metabolizzata dalla coscienza collettiva. 

Per lungo tempo ho pensato che l’elemento cruciale del problema tra noi e i palestinesi non sia la politica, ma la psico-politica. Ognuna delle parti in causa cerca di battere l’altra nella “gara dei traumi”. “Nakba”, ci gridano, e noi reagiamo urlando: “Olocausto”. Nessuno, fino alle eclatanti affermazioni del Presidente Mahmoud Abbas la settimana scorsa, sul crimine dell’Olocausto, è realmente interessato ad ascoltare i sentimenti, l’offesa subita, le ferite e il dolore degli altri.

È una realtà descrivibile in termini binari: il mio trauma o nulla, per cui il risultato naturalmente è nulla. Non verrà mai avviato nessun accordo di pace profondo, esistenziale e significativo, se prima non si favorisce un autentico dialogo tra le memorie, i traumi e le storie. Non un discorso di rifiuto e negazione, ma uno di sensibilità e accoglienza.

Ci sono molti modi di intrecciare tra loro la storia passata e quella contemporanea. Alcuni sono simbolici. Perciò, i marciapiedi in molte città tedesche sono decorati da “pietre di inciampo” (Stolpersteine), create e installate dall’artista tedesco Gunter Demnig. Sono affermazioni quiete, non provocatorie, poste davanti alle case per ricordare coloro che sono stati portati via e non vi hanno più fatto ritorno. Analogamente, alcune parti del vecchio Muro di Berlino sono state preservate nelle strade cittadine. A Varsavia, ci sono piccole insegne in diverse lingue che ricordano gli eventi occorsi in ogni luogo durante l’Olocausto. Non ampi monumenti grandi e avulsi dal contesto, ma una muta presenza che costituisce parte della routine quotidiana di ogni passante.

In Israele, un Paese "drogato" di storia e archeologia, queste cose si fanno facilmente. Non succederà alcunché di male se la storia non prenderà in considerazione solo gli ebrei, ma anche i palestinesi; al contrario, si avrà da guadagnare un sentimento di appartenenza e di maggior rispetto per il posto che ricoprono i cittadini palestinesi di Israele. Niente di catastrofico accadrà se in ogni luogo prendiamo nota di tutta la storia di Israele, quella di un popolo accanto a quella dell’altro.

Io non credo che la ruota della storia possa essere girata all’indietro. Il torto arrecato ieri non può essere emendato creando un nuovo torto oggi. Detto questo, dove si può fare ammenda di qualcosa, perché non farlo? Da quando Israele è nata, la condizione dei rifugiati palestinesi è usata come una delle principali argomentazioni dello stato israeliano per difendere i propri interessi.

“Guardate la differenza”, hanno sostenuto i propagandisti israeliani. “Mentre noi abbiamo fatto entrare milioni di rifugiati dai Paesi arabi, abbiamo dato loro alloggio e permesso loro di ricominciare una nuova vita per la maggior gloria dello Stato di Israele, loro – gli arabi- non hanno mai alzato un dito per aiutare i loro rifugiati. Attualmente essi vivono in campi d’emergenza, sono eterni clienti dell’ UNRWA, si moltiplicano incessantemente, oppressi e dimenticati”.

Ma questo è un argomento vuoto, perché l’Israele ebraico non ha fatto nulla per i rifugiati palestinesi dentro il Paese. È a nostro carico ricordare che, secondo la retorica sionista, gli olim – gli immigrati ebrei in Israele – per definizione non sono rifugiati. Aliyah – “l’ascesa” verso Israele – è una decisione ideologica positiva, mentre lo status di rifugiati è il risultato negativo di un’espulsione, di una fuga e di una sconfitta. In contrapposizione agli olim sionisti, un’ampia fetta di palestinesi israeliani è composta di rifugiati a tutti gli effetti.
Più di 250 mila rifugiati del 1948 e i loro discendenti vivono oggi in Israele propriamente detto. Non in Libano e non nella West Bank e non nella Striscia di Gaza, bensì proprio in Israele. Alla fine della Guerra d’Indipendenza, circa 160 mila palestinesi sono rimasti in questo Paese, non espulsi dalla politica di pulizia. Di questi, circa 40 mila “displaced person” furono espulse dalle loro case e costrette a spostarsi “temporaneamente” in città e villaggi vicini, entro i confini del nascente Israele. 

Per queste persone sradicate all’interno del Paese, Israele non ha fatto assolutamente nulla, anzi. Innumerevoli sentenze e commissioni pubbliche e governative hanno fatto il loro meglio per evadere ripetutamente dalle semplici promesse fatte dalle autorità agli abitanti quando li costrinsero a partire. Era stato loro promesso che quando la guerra sarebbe finita, avrebbero potuto tornare nelle loro terre. 

La più nota di queste narrazioni, anche se non necessariamente la più grossolana e vergognosa, è quella di Ikrit e Kafr Bir’im, [due villaggi cristiani, ndT] nell’Alta Galilea. Ma in tutto il Paese, i cimiteri furono dissacrati, i luoghi santi divennero magazzini e stalle per animali, interi villaggi furono spazzati via e il posto dove alcuni andavano a pregare per le loro vittime e la devastazione inflitta divenne il luogo di piacere e di villeggiatura per altri.
Questo processo continua, imperterrito. Questo è il comportamento di uno stato e di una società insensibili, che negano la storia di alcuni dei loro cittadini – negando, infatti, parte della propria storia.

Le cose non devono andare per forza così. Israele potrebbe compiere un grande gesto verso se stesso, i suoi cittadini e l’intera regione ponendo la questione dei rifugiati interni in cima alle proprie priorità. Come esempio del modo corretto di implementare il diritto al ritorno, ogni volta che sia possibile e praticabile. Siccome questa è una questione interna israeliana, non altererà l’equilibrio demografico che viene santificato dall’establishment incline a fomentare le paure.

Dopo aver fatto spazio qui per il più ampio spettro di comunità ebraiche del mondo, è ora di fare spazio anche al rimanente quinto dei cittadini del Paese.
Sto seguendo stupefatto i bizzarri sforzi della destra israeliana di arruolare gli arabi cristiani nell’esercito israeliano (Israel Defense Forces o IDF). Questa è ancora un’altra nozione non ben compresa che è stata messa insieme da persone che non hanno capito la questione nazionale israeliana moderna, e che sono guidate da questo malinteso, e ora cercano di districarsi nella complessa questione nazionale araba. È un’idea senza senso, ma dal punto di vista dei suoi difensori, essi dovrebbero essere i primi a mostrare segni di volontà di considerare e riportare indietro i cristiani che si trovano tra i rifugiati locali, proprio come quelli di Ikrit e Bir’im, da dovunque siano stati dispersi. 

Ma Ikrit e Bir’im non sono affatto diversi dalla triste vicenda umana di Al-Ghabisiyya, un villaggio a nord di Accra che fu privato della sua popolazione dall’IDF nel 1951 e demolito nel 1955, nonostante una sentenza contraria dell’Alta Corte di Giustizia. Molti dei residenti furono sparpagliati in altre località in Israele (Per i dettagli si veda, in ebraico, Defeatist Diary di Joseph Algazy, sule Web.) Per come percepisco l’israelità, ovunque possibile, queste persone dovrebbero essere autorizzate a ritornare, o indennizzat perché non c’erano solo antiche sinagoghe in questi posti, ma anche chiese e moschee ed esplicite sentenze della Corte Suprema.

Tutti questi hanno un posto nell’israelità, credo, e aspiro a che sia così. Essa riunisce tutti gli israeliani e le loro storie, anche quando fa male, e specialmente quando fa male. Senza questo, non ci sarà ma na reale indipendenza qui, ma solo un continuo asservimento alle paure, ai rifiuti, all’inimicizia e all'insaziabile fame di guerra. Non c’è Indipendenza senza riconciliazione e non c’è Nakba senza perdono. Desta forse meraviglia che nella Festa dell’Indipendenza 2014 abbiamo ancora più Nakba e molto meno Indipendenza?


Traduzione dall'inglese di Carolina Figini

5 maggio 2014

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