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Quei bambini che volevano proteggere i genitori dall’Olocausto

intervista a Helena Klímová

Un'immagine dell'incontro

Un'immagine dell'incontro

Il 7 novembre 2019, l’avvocato Karim Ponticelli, amico di Gariwo e lui stesso nipote del Giusto tra le Nazioni arcivescovo Gennaro Verolino, ha organizzato un incontro tra gli studenti il liceo di Kyjov (nella Moravia del Sud), dove vive, e lo scrittore ceco di fama mondiale Ivan Klíma, sopravvissuto al campo di concentramento di Terezín (in tedesco Theresienstadt). L’occasione è stata propizia per un’intervista con la moglie, la psicologa Helena Klímová su un tema poco trattato: quello della responsabilità inversa, ovvero su come i bambini volevano proteggere i loro genitori durante l'Olocausto.

La mia prima domanda è: per quanto tempo i traumi della Seconda guerra mondiale vengono trasmessi tra le generazioni prima che si possa affermare che sono stati superati?

È una domanda interessante. Direi che il tema è completamente nuovo. Oggi diventa assai opportuno studiare l'argomento, perché ci dimostra come le conseguenze di questi traumi siano cresciute dopo la Seconda guerra mondiale e come siano state trasmesse di generazione in generazione. La prima generazione è quella dei partecipanti diretti (testimoni, vittime) che sono stati colpiti da traumi e sintomi e che hanno fondato le loro famiglie. Famiglie che, poi, crescono e si ingrandiscono. Ciò fa sì che il trauma non si estingua con la prima generazione, ma venga trasmesso e trasformato nelle generazioni successive. Sulla generazione dei cosiddetti bambini nascosti (ovvero le persone che erano bambini durante la Seconda guerra mondiale e sopravvissero solo perché furono nascosti presso persone che non erano perseguitate) possiamo dire che si tratta di bambini molto specifici la cui specificità si rifletteva nel fatto che, fin dalla prima infanzia, vale a dire da quando si sono nascosti con i genitori per 3-5 anni, hanno assunto la responsabilità dei genitori, ovvero quello che chiamiamo responsabilità inversa. Di solito si nascondevano con la mamma, il padre era, ad esempio, tra i partigiani. La madre percepiva il pericolo e si lasciava prendere dal pessimismo e dalla disperazione, e il bambino non lo capiva del tutto; sentiva il bisogno di proteggere la madre. Quindi, il legame si ribaltava perché era il bambino che proteggeva la madre, e questo fino all'età adulta.

Nei primi anni, quando abbiamo iniziato a occuparci della terapia del trauma della guerra, gli adulti, in particolare le donne che hanno vissuto il destino dei bambini nascosti, tendevano a proteggere i propri genitori, trascurando così la propria vita personale. Quindi, la generazione dei bambini nascosti annovera adulti che sono rimasti con i loro genitori continuando ad aiutarli, oppure hanno fondato le proprie famiglie, che però molto spesso si disintegravano: i figli continuavano a tornare dai loro genitori per prendersi cura di loro. Questa situazione è descritta scientificamente, l'abbiamo incontrata molto spesso. Successivamente è seguita la seconda generazione, ovvero quella delle persone nate dopo la guerra da persone che hanno vissuto gli orrori dei campi di concentramento. La seconda generazione era abbastanza simile a quella dei bambini nascosti perché, anche in questo caso, i bambini, una volta diventati adulti, scoprivano i destini dei loro genitori, e analogamente ai bambini nascosti, provavano dolore e facevano fatica a diventare adulti, si sentivano in colpa a farlo perché i genitori avevano sofferto così tanto. Anche qui incontriamo adulti che sono rimasti emotivamente dipendenti dai loro genitori, nonostante abbiano creato le loro famiglie. I sopravvissuti hanno cercato di proteggere i loro figli così tanto da rendere il tema della persecuzione e dell'antisemitismo un tabù a casa. I bambini spesso apprendevano del destino dei loro genitori soltanto all'età di circa 30 – 40 anni.

Abbiamo poi la terza generazione – i nipoti dei sopravvissuti. Questa generazione è diversa e fa sperare, perché il trauma è stato elaborato dalle generazioni precedenti. Questa generazione affronta il tema in modo creativo e più ottimista. Nel mio lavoro incontro persone che, ad esempio, rinnovano edifici del passato, raccolgono documenti storici, danno vita a una nuova cultura e provano a trovare la vecchia cultura che è stata dimenticata e trasformata in tabù. 

Da quanto tempo si occupa di questo tipo di trasmissione del trauma?

Mi occupo del destino di queste persone in modo professionale sin dai primi anni '90 e nel 1997 abbiamo istituito un gruppo psicoterapeutico da cui traggo le mie esperienze. La cosa molto interessante è che la trasmissione del trauma viene elaborata sia a livello conscio che inconscio. Capita di scoprire che i bambini della terza generazione fanno sogni che non sono spiegabili in alcun modo. Esiste una trasmissione che non è cosciente. Non vorrei dire qualcosa che possa sembrare irrazionale, ma negli ultimi 10 anni è stato dimostrato che la progenie dei sopravvissuti al trauma ne porta le tracce nelle sue cellule germinali. Esiste quindi una trasmissione materiale di questo trauma. Esistono modalità di "passaggio" che non possono essere spiegate.

Come ha cominciato a fare questo lavoro e perché?

Appartengo alla generazione dei bambini nascosti, i miei genitori furono deportati e io e mia sorella venimmo nascoste in un orfanotrofio. I rappresentanti di un orfanotrofio evangelico vicino a Říp si presero cura di noi. Lì trascorremmo 7 mesi. Per me, quel soggiorno fu piacevole. All'età di circa otto anni (tra i 5/8) vidi i nonni di mia madre venire deportati, fino ad allora, me lo ricordo molto bene, mia nonna (la madre di mia madre) aveva vissuto con noi. I miei parenti venivano da noi e l'atmosfera era molto allegra. Gradualmente, però, iniziarono a scomparire: prima la nonna, la sorella della madre, poi suo padre e infine la mamma. Mia madre era distrutta da quello che stava accadendo. Furono esperienze tragiche, e, per questo motivo, mi piacque l'orfanotrofio, che era relativamente tranquillo. Fortunatamente, i nostri genitori tornarono dal campo di concentramento e fin dall'infanzia sentii il bisogno, ovvero il desiderio, di fare qualcosa, di capire cosa potesse fare una persona contro quel male. Abbiamo un'associazione no-profit chiamata Irene e ogni anno assegniamo un premio a una persona che ha contribuito alla pace tra le persone. In occasione della premiazione, teniamo una conferenza: quest'anno il premio è stato consegnato alla giornalista Pavla Holcová (la giornalista investigativa ceca che ha collaborato con il giornalista slovacco Jan Kuciak assassinato nel 2018, NdR).

Quindi, se guardiamo da una prospettiva di lungo termine, possiamo dire che il trauma può essere superato elaborandolo in qualche modo creativamente e costruttivamente?

Personalmente non posso fornire statistiche, posso solo parlare delle persone che incontro e nelle quali vedo davvero la speranza che riescano ad elaborare il trauma in modo creativo. Ma ci sono anche altre famiglie (e altri colleghi le stanno studiando) che sperimentano un diverso tipo di trauma, la distruzione della famiglia. È abbastanza interessante vedere come esse abbiano poi la tendenza a non riprodursi, soffrano di infertilità, i loro bambini muoiano o si ammalino. Direi che esiste un legame tra la natura biologica dell'uomo e la sua esperienza. E non tutto è stato studiato ed esplorato, ma ce ne stiamo occupando. In terapia incontro storie che hanno un lieto fine. Le persone chiedono aiuto e sono motivate. Ma esistono anche casi che finiscono male, dove vince la distruzione.

Nella sua esperienza, esiste un tratto specifico nel trattamento dei traumi dell'Olocausto o è un trauma simile a quello di altri genocidi, come per esempio, quello delle guerre jugoslave?

Questa è una domanda interessante, che stiamo trattando con colleghi dall'estero. Anche con i miei colleghi tedeschi, troviamo delle somiglianze nella seconda generazione, tra vittime e persecutori. La seconda generazione è caratterizzata infatti dal fatto che i bambini adulti al momento dell'adolescenza tendono a compatire i loro genitori, se ne prendono cura e non li lasciano. In entrambi i casi è riscontrabile un fenomeno di tabuizzazione. Nelle famiglie ebree dell'Europa centrale, i genitori avevano paura di parlare dell'Olocausto e non volevano trasmettere il trauma ai bambini. In casa, quindi, non se ne parlava e i figli chiedevano insistentemente di sapere di più. In Germania accadeva qualcosa di simile per il motivo opposto: la prima generazione si vergognava (o aveva paura) di parlare del destino della guerra, e, così, l'hanno tenuto nascosto. I miei colleghi tedeschi hanno pubblicato un libro importante, Mio nonno non era nazista (Opa war kein Nazi), che è stato scritto sulla base di una ricerca fatta tra gli scolari (nipoti). Si è scoperto che i nipoti consideravano il nazismo in modo molto obiettivo, persino critico, e che nelle famiglie non si trovavano prove che il nonno fosse stato coinvolto in alcun modo. Questo perché i genitori volevano proteggere i bambini. Quello che posso dire sicuramente è che il trauma, quando rimane senza nome, tende a essere trasmesso di generazione in generazione, e, se non intervengono altri gravi problemi, esiste la possibilità che venga elaborato dalla seconda e terza generazione. Corpo e anima hanno una capacità di auto-guarigione, che è un po' diversa per ciascuna persona, poiché la difesa somatica e quella psichica sono differenti. Nella seconda e terza generazione, quindi, le persone in generale migliorano la loro situazione traumatica. Ci sono però casi in cui nella terza generazione cresce, al contrario, il desiderio di vendicarsi, non di guarire.

In questo contesto, volevo chiederle se è possibile perdonare; forse ci riescono le generazioni successive, o magari non è possibile affatto?

È una domanda molto difficile e ognuno la affronta a modo suo. Parlando della mia esperienza personale, è molto importante parlare con i colleghi tedeschi, io li vedo soffrire per un sentimento di vergogna per qualcosa di cui non sono neanche responsabili. In Israele esiste un progetto chiamato Out of the Auschwitz, si tratta di un'iniziativa congiunta tra colleghi israeliani e tedeschi che tengono periodicamente delle conferenze su come affrontare questo problema, per arrivare al perdono evitando di far risorgere l'odio.

Oltre all'Olocausto, con quali altri traumi lavora nel suo studio?

Mi occupo del trauma lasciato dal comunismo e con la sofferenza e il dolore che ha causato a molte persone. L'unica differenza con il nazismo è che i comunisti non dichiararono lo sterminio fisico dei propri nemici. Erano però spietati nella lotta di classe, lo scopo era rieducare tramite i gulag, ci furono omicidi giudiziari. In terapia abbiamo a che fare con la terza generazione. Ho anche un altro gruppo di psicoterapia con nipoti di persone perseguitate durante il comunismo. Per esempio, un giovane medico, il cui nonno era un onesto agricoltore di successo: gli sequestrarono la terra e il bestiame e lo sbatterono in prigione, la famiglia crebbe senza il padre, vedendo minato il normale equilibrio familiare. Fortunatamente, nella famiglia si sono conservati gli ideali su come condurre una vita retta, onesta e giusta, ma mancava un modello cui ispirarsi, poiché il nonno venne punito per ciò che era. Il figlio e il nipote sapevano che ci si deve comportare in modo giusto e onesto, ma non sapevano come farlo. E questa è solo una delle tante storie... Queste persone hanno sintomi che non sanno come affrontare e hanno bisogno di un aiuto di tipo psicoterapico. L'argomento della trasmissione transgenerazionale è qualcosa di nuovo. Freud aveva parlato della relazione tra genitori e figli, ma nella sua analisi nonne e nonni non c'erano. Invece lo studio nella generazione dei nonni può svolgere un ruolo importante, soprattutto in tempi di pace come questi, quando questi traumi possono essere trattati senza l’ostacolo di nuovi drammi. La terza generazione li sta affrontando, e noi li aiutiamo a farlo. E così, riassumendo, i nonni hanno subito la persecuzione, i genitori hanno vissuto in condizioni di sofferenza e umiliazione e la generazione dei nipoti presenta sintomi psicosomatici del trauma. Essi arrivano nel mio studio con problemi psicosomatici e, quando parliamo della storia familiare, scopriamo che il nonno e la nonna furono perseguitati: nella terza generazione, l'argomento non è chiaro, ma l'"energia" è ancora lì.

Andreas Pieralli, giornalista e traduttore

25 febbraio 2020

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