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Balcani occidentali: il flusso migratorio (dimenticato) è in crescita

Sette mesi dopo la riapertura del campo di Lipa, il confine “caldo” è tra Bosnia e Croazia. Condizioni precarie dei profughi negli hotspot in Grecia

Lontano dai riflettori di gran parte dei media e dall’attenzione dell’opinione pubblica, diverse migliaia di migranti si trovano bloccati al confine dell’Unione Europea, soprattutto alla frontiera tra Serbia e Bosnia-Erzegovina. Secondo i dati resi noti in giugno da Frontex, l'agenzia per il controllo delle frontiere esterne UE, nei primi cinque mesi del 2022 gli ingressi illegali nell'Unione sono cresciuti dell'82% rispetto allo stesso periodo del 2021, arrivando a quota 86.420. Il numero maggiore di arrivi (40.675, il triplo rispetto a gennaio-maggio 2021) è stato registrato sulla rotta dei Balcani occidentali. Sono uomini, donne, bambini e anziani, provenienti soprattutto da Turchia, Siria e Afghanistan (che vuol dire, per esempio, percorrere oltre 4 mila chilometri per scappare dai nuovi padroni di Kabul, e finire incastrati a un passo dall’UE). C’è stato un progressivo rafforzamento (“militarizzazione”, secondo alcuni osservatori) delle frontiere UE, che ha trasformato i Balcani occidentali in un “collo di bottiglia”, con crisi umanitarie specialmente in inverno, quando le condizioni di vita nei campi informali e nei boschi si fanno insostenibili. Anche quest’anno, con l’inizio della primavera, i flussi sono cresciuti. E i migranti, quotidianamente, tentano il cosiddetto, pericoloso, “game”, il “gioco” dell’attraversamento di confini più che mai presidiati.

La riapertura del campo di Lipa

Nel novembre 2021 è stato riaperto il centro di accoglienza per migranti di Lipa, in Bosnia-Erzegovina, dopo l’incendio che lo aveva distrutto un anno prima. Il “campo”, che si trova a 24 chilometri da Bihac (il centro abitato più vicino, poco distante dalla frontiera con la Croazia), presenta alcuni miglioramenti rispetto alla struttura che era andata in fumo. Ora può ospitare fino a 1.500 persone, non più dentro alle tende militari ma all’interno di container riscaldati con sei posti letto; comprende una sezione per minori non accompagnati e famiglie, fornisce riparo, cibo, acqua, servizi igienico-sanitari e cure mediche. Grazie al lavoro di organizzazioni come IPSIA-ACLI, Caritas e Croce Rossa, è stata concessa l’apertura di un tendone-refettorio dove si può prendere un caffè caldo e perfino giocare a scacchi. Il progetto del nuovo centro di accoglienza è stato finanziato dall’UE con l’aiuto di singoli governi europei.

In vendita materiale per tentare il “game”

“Fuori dal campo di Lipa, in mezzo a una spianata di fango, sono stati aperti un paio di minimarket e un bar, gestiti da alcuni commercianti di Bihac che hanno trasformato vecchi container in negozi di fortuna”, racconta il volontario di una ONG. C’è anche una baracca con tanto di insegna: "Game shop". Vende l’occorrente per l’attraversamento della frontiera: torce, sacchi a pelo usati, caricabatterie, barrette energetiche, vecchi cellulari, contenitori vari, ecc. Ma molte persone preferiscono accamparsi altrove, lontano dalla nuova struttura di accoglienza, in luoghi più vicini al confine croato da cui possono tentare più facilmente il “game.” Periodicamente questi accampamenti vengono sgomberati con la forza dalla polizia bosniaca, e i migranti costretti a trasferirsi nel campo di Lipa.

Il fiume Korana e il rischio dei pushback

Il “game” è rischioso, sempre. Chi tenta lo sa bene. Ci sono le forze di polizia bosniache da una parte, e quelle delle autorità di Zagabria oltre la frontiera. Con un importante “aiuto” fornito dalla morfologia del territorio, in particolare dal fiume Korana, il corso d’acqua lungo 139 chilometri che scorre tra Croazia centrale e Bosnia occidentale, molto difficile da attraversare; ma non mancano i trafficanti di esseri umani forniti di imbarcazioni di fortuna. Basta pagare. E poi c’è il pericolo più temuto dai migranti: i pushback, i violenti respingimenti alla frontiera. Negli ultimi anni i pushback sono diventati un elemento importante (non ufficiale) della condotta migratoria dei paesi UE e di altri paesi; il termine descrive l’espulsione informale, senza giusto processo, di un individuo o di un gruppo verso un altro paese. Se il passaggio per la frontiera Bosnia – Croazia è disseminato di ostacoli, il percorso dalla Serbia all’Ungheria è del tutto impossibile, perché il premier di Budapest, Vikton Orbàn, ha deciso di erigere un’alta barriera metallica con filo spinato di 175 chilometri lungo il confine. Operazione replicata poco dopo anche a Sud-Ovest, lungo la frontiera con la Croazia.

Report delle violenze alle frontiere

Nel 2021 Border Violence Monitoring Network (BVMN), rete indipendente di ONG e associazioni con sedi nei Balcani e in Grecia che monitora le violazioni dei diritti umani ai confini esterni dell'UE, ha registrato numerosi episodi di pushback ai danni di centinaia di persone in movimento attraverso i Balcani. A quelle di BVMN si affiancano le denunce della coalizione di enti no profit Protecting Rights at Borders (PRAB) che, solo nei primi tre mesi del 2022, ha evidenziato casi di pushback alle frontiere UE che avrebbero coinvolto 2 mila migranti. E pensare che dall’inizio del 2018 Bruxelles ha erogato circa 90 milioni di euro, direttamente alla Bosnia-Erzegovina o tramite organizzazioni partner, per far fronte alle esigenze immediate di rifugiati, richiedenti asilo e migranti. Per coloro che ce la fanno a superare il “game”, croato-bosniaco, ci sono poi le difficoltà di muoversi all’interno dell’Unione. Dal 2015, quando più di un milione di persone ha percorso la rotta balcanica per raggiungere l’Europa dei 27, in sei paesi (Germania, Francia, Austria, Svezia, Danimarca e Norvegia) sono in vigore i controlli ai confini interni, introdotti per ragioni di sicurezza nazionale.

Tre miliardi di euro per sigillare la “fortezza Europa”

“Quelle che vediamo intrappolate nei Balcani sono in larga parte persone che hanno lasciato i paesi di origine da anni e sono rimaste bloccate nei diversi paesi UE e non UE, tra la Turchia e la Bosnia”, spiega Gianfranco Schiavone, analista di Eurispes e membro dell’ASGI (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione). Rotta balcanica significa sostanzialmente la storia di un corridoio umanitario che le autorità di Bruxelles hanno cercato di sigillare senza però riuscire mai a fermare l’afflusso di rifugiati. Dopo le massicce correnti migratorie del 2015, provenienti soprattutto dalla Siria (dilaniata a quell’epoca da una sanguinosa guerra civile), l’Unione Europea ha reagito con il principio di “esternalizzazione”, delegando attraverso fondi e sostegno logistico ai paesi dell’area balcanica la gestione dei profughi. Nel 2016 venne siglato l’accordo tra Unione Europea e Turchia che chiuse (almeno formalmente) il corridoio. Ankara si sarebbe fatta carico dei profughi, e in cambio l’UE forniva assistenza e fondi per 3 miliardi di euro. In seguito, tra il 2018 e il 2020, l’alto rischio di mortalità nelle rotte via Mediterraneo e la lentezza nelle procedure di accoglimento delle richieste d’asilo in alcuni paesi a Sud del continente (Italia, Francia, Spagna) hanno contribuito ad incrementare i flussi via terra dalla Turchia alla Grecia in direzione Nord, trasformando la rotta balcanica in un gigantesco crocevia di richiedenti asilo provenienti dalle più diverse parti del mondo. 

Grecia, il nuovo (fortificato) campo nell’isola di Samo

Molti dei migranti che vivono oggi in Serbia e in Bosnia, per esempio, arrivano dai campi di accoglienza della Grecia. Anche nella terra che diede i natali ad Aristotele e Pitagora - paese UE dal 1981 – i profughi sono concentrati in hotspot sempre più isolati e fortificati. Come dimostra il campo realizzato con il denaro di Bruxelles e inaugurato nel settembre 2021 a Samo, isola greca “ponte” nel Mar Egeo, a due passi dalla costa turca. Il nuovo centro di accoglienza è circondato da reti di filo spinato, scanner a raggi X e porte magnetiche; ed è costantemente sorvegliato dalla polizia. La struttura si trova nella località di Zarvou, lontana dai centri abitati, e può ospitare fino a 3 mila persone. Le ONG che lavorano sul territorio continuano a denunciare le condizioni di accoglienza negli hotspot, definendole strutture che intrappolano le persone dove, nella maggior parte dei casi, il diritto di asilo viene negato.

L’hotspot di Moira

È ciò che accade anche nell’isola di Lesbo (come Samo, a pochi chilometri dalla Penisola anatolica): a quasi due anni dalla ricostruzione, dopo l’incendio che lo ha distrutto (settembre 2020), l’hotspot di Moira ospita circa 13 mila persone, cioè quattro volte la capienza massima prevista. I volontari delle diverse ONG raccontano che i migranti vivono in modo precario: dormono in tende da campeggio che si allagano continuamente, l’igiene e l’alimentazione sono pessimi, il diritto all’istruzione non è garantito. Gli psicologi delle organizzazioni internazionali spiegano che “i lunghi tempi per le richieste di asilo e la continua incertezza contribuiscono al deterioramento dello stato di salute fisica e mentale”. In Grecia i profughi e le ONG possono almeno contare sulle visite periodiche e le testimonianze dei deputati della Commissione LIBE, la commissione permanente del Parlamento europeo per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni. Alcune organizzazioni non governative, tuttavia, hanno sollecitato la creazione di un meccanismo indipendente di monitoraggio all’interno degli hotspot e alle frontiere, per indagare sui respingimenti e rendere coloro che violano il diritto internazionale responsabili delle loro azioni.

Un muro di 186 chilometri tra Polonia Bielorussia

Insomma, ciò che accade (anche) in Grecia è la conferma che la “fortezza Europa” non rende facile la vita a coloro che cercano di entrarvi, scappando da guerre, fame e regimi totalitari. Molto più a Nord, al confine tra Polonia e Bielorussia la storia è diversa, ma la sostanza non cambia molto. Secondo i dati dell’UNHCR, sarebbero alcune migliaia i migranti bloccati da mesi alla frontiera, quasi tutti nel versante bielorusso, in condizioni di disagio estremo, spesso in campi informali e improvvisati. I profughi sono stati incoraggiati dal governo di Minsk a dirigersi verso e oltre il confine polacco con la falsa promessa di un canale facilitato verso l’UE. Intanto Varsavia ha iniziato la costruzione di un muro di cemento e acciaio alto 5,5 metri con attrezzature di sorveglianza contro gli attraversamenti irregolari di migranti. La barriera dovrebbe misurare 186 chilometri lungo la frontiera, passando anche per Białowieża, una delle ultime foreste vergini d’Europa, patrimonio Unesco. Dopo l’inizio dell’aggressione russa a Kiev, il 24 febbraio scorso, le istituzioni europee hanno attivato per la prima volta l’istituto della “protezione temporanea” per le persone in fuga dall’Ucraina. Diversi osservatori hanno fatto notare il “doppiopesismo” dei paesi dell’Unione tra la giusta e doverosa accoglienza agli ucraini in fuga e le politiche di netta chiusura nei confronti dei migranti di altre nazionalità.

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