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Cantare per la riconciliazione a Srebrenica

in un Paese ancora fortemente diviso

Il 6 giugno Papa Francesco sarà in visita nella capitale bosniaca, Sarajevo. Ad accoglierlo sarà presente anche il Srebrenica Superar Choir, formato dai bambini della Chiesa serbo ortodossa e dai giovani musulmani.
I loro genitori hanno vissuto l’orrore della guerra, e questi giovani sono il “testamento vivente” del potere della riconciliazione e del perdono. Per quattro anni, 220 bambini tra i 5 e i 17 anni hanno suonato e cantato insieme. “Questo mix è quello di cui abbiamo bisogno in Bosnia - ha dichiarato il direttore del coro, Ismar Poric - questi bambini sono un modello per tutti noi”.
Il coro è un progetto multietnico di riconciliazione, dove sono nate numerose amicizie che uniscono gruppi ancora profondamente divisi. “Il nostro obiettivo - aggiunge Poric - è mostrare loro che il mondo può essere bellissimo ed esortarli a guardare avanti, a cercare il buono nella vita”.

Srebrenica è l’emblema del conflitto che ha insanguinato i Balcani negli anni ‘90. L’11 luglio 1995, le truppe serbe del generale Ratko Mladic entrarono nella città bosniaca e uccisero più di 8mila tra uomini e ragazzi. A vent’anni dalla fine della guerra, il Paese è ancora diviso.

Se da un lato il trattato di pace di Dayton del 1995 ha posto fine alle ostilità, dall’altro ha di fatto congelato le fratture etniche. La Bosnia post guerra che ne deriva, infatti, è divisa in due principali entità, la Federazione croato-musulmana e la Repubblica Srpska, serba. A livello politico, vengono eletti un presidente croato cattolico, uno serbo ortodosso e uno bosniaco musulmano. Chiunque non appartenga a questi tre gruppi è emarginato.

Ne sono un esempio i rom di Bosnia, circa 100mila persone su una popolazione totale che non raggiunge i quattro milioni di abitanti. Vivono da secoli nel Paese, ma non hanno rappresentanti politici a livello locale né nazionale. Nel 2006, Dervo Sejdić, un rom, e Jakob Finci, un ebreo, hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, denunciando l’esclusione delle comunità diverse da quelle “costitutive”. I due casi sono stati uniti e, nel 2009, hanno portato alla sentenza Sejdić-Finci, con cui Strasburgo ha condannato la Bosnia per la violazione dei principi di non discriminazione e di libere elezioni.
Quattro anni dopo, quella sentenza non è ancora stata applicata.

Oggi la separazione tra serbi, croati e musulmani è considerata normale nel Paese. Esistono anche, come a Mostar, scuole in cui, nello stesso edificio, ci sono classi e ingressi separati per musulmani e croati. Per non parlare dei libri di testo e dei programmi scolastici, profondamente diversi soprattutto nell’insegnamento della storia.

Il congelamento delle divisioni etniche è stato solidificato anche dal censimento della popolazione - il primo dopo la guerra - chiuso il 15 ottobre 2013. Già due anni fa, il provvedimento fece discutere per la presenza di domande che facevano riferimento alla nazionalità e al gruppo etnico e religioso. Ai cittadini veniva richiesto di specificare la propria appartenenza etnica, sbarrando una delle tre caselle a disposizione o scrivendo per esteso il proprio gruppo in un apposito spazio. Paradossalmente non esisteva una casella che indicasse la semplice cittadinanza “bosniaco erzegovese”, a dimostrazione del fatto che, ancora oggi, le forme di identificazione prevalenti nel Paese sono essenzialmente etniche e religiose.
I dati ufficiali dovevano essere resi pubblici nel gennaio 2014, ma ciò non è ancora avvenuto. Tuttavia la pubblicazione dei risultati potrebbe provocare disordini nel Paese. Sembrerebbe infatti che il 35% dei bosniaci si sia dichiarato “altro”, e che il numero dei cattolici in Bosnia arrivi a 430mila, circa il 50% della popolazione cattolica di prima della guerra. La rilevanza di questo dato è evidente se si tiene conto del fatto che per individuare le comunità costitutive si pensò di considerare le etnie più numerose del Paese, basandosi però sul censimento del 1991.
I risultati del nuovo censimento potrebbero mostrare percentuali diverse e innescare nuove proteste.

Proteste che hanno interessato il Paese già nel febbraio 2014, quando un alto tasso di disoccupazione e una diffusa corruzione politica hanno portato migliaia di giovani a manifestare nelle strade bosniache. Un anno dopo nulla è cambiato; il pericolo oggi è il terrorismo islamico, che sfrutta il malcontento dei giovani per attrarre nuove reclute.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

3 giugno 2015

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