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Sarajevo, la generosità umana tra le colline dell’assedio

Una giornalista serba visita la capitale bosniaca a quasi trent'anni dalla guerra

"Vivo da 40 anni nello stesso quartiere, a Sarajevo, a due passi da un'antica chiesa ortodossa e da una moschea del XVI secolo. E salendo appena, da casa mia, raggiungo il seminario cattolico della Bosnia. Prima della guerra quest’armonia, nata dalla differenza, si ritrovava nella vita d’ogni giorno. La religione e la nazionalità appartenevano alla sfera privata. Sarajevo mi ha aperto gli occhi. Ero stupito nel vedere una città così ricca di grandi qualità umane, soprattutto la tolleranza e la generosità”, sono le parole del grande Jovan Divjak, il generale di nazionalità serba nato e cresciuto a Belgrado che ha difeso Sarajevo durante la guerra del 1992-1995, quando decise di lasciare l’esercito jugoslavo e di aderire a quello bosniaco per difendere la città dall'aggressione esterna.

Oggi, il generale Divjak non c’è più, è morto pochi mesi fa a 84 anni nella sua Sarajevo. La “sua città”, come l'ha definita lui stesso alla giornalista turca Eylem Kaftan, che tre anni fa documentò la vita di questo grande uomo.

“Sarajevo, my love” è il documentario che racconta la storia di un uomo che è stato da parte dei più deboli, dalla parte dei cittadini che si difendevano. Per questa sua scelta, il generale Divljak è un eroe; ma è anche un traditore per coloro che hanno assediato la città per quattro anni, quei cecchini serbi che dalle meravigliose colline circostanti hanno sparato a ogni essere vivente che si trovava sulle strade della capitale.

Anch’io sono serba e arrivo a Sarajevo dopo più di un decennio. L’ho visitata solo una volta e solo per un giorno. Poco tempo per capire un luogo in cui nasce la storia d’Europa del secolo scorso, piena di contraddizioni, drammi e conflitti.

La mia amica Djenita ha avvisato tutta la “raja” (in gergo bosniaco la parola che si usa per gli amici) che sarebbe arrivata la sua “amica serba”. Ha un negozio di artigianato dove fa i gioielli e da quando è tornata da Milano a Sarajevo vive nel centro della vecchia città, ormai da otto anni.

“Siamo molto felici di poterti ospitare”, mi dice il suo compagno Ismir, che ha organizzato per me la visita guidata della città.

Gli dico subito che voglio andare a visitare il posto dove Gavrilo Princip uccise l’arciduca Franz Ferdinand. Un assassinio che ha tormentato le tre etnie che da sempre vivevano a Sarajevo, serbi, croati e bosniaci. ll gesto omicida di Princip, per il suo popolo è considerato come il gesto eroico del giovane serbo che si è opposto alla occupazione Austro-Ungherese. Per il resto del mondo Princip è l’attentatore che ha fatto scoppiare la Prima guerra mondiale.

Scherzando, Ismir mi dice che se non ci fosse stato Gavrilo Princip, tutto il caos successivo non sarebbe accaduto. Siamo davanti all'hotel Europa, lo storico edificio dell'architettura austriaca costruito nel 1882 come simbolo di una città che all’epoca guardava nel suo futuro progressista, che è anche il luogo davanti a cui il giovane Princip uccise l'arciduca austriaco.

A visitarlo c’è anche un gruppo di turisti, circa trenta persone. Sento il loro accento serbo. Davanti all’albergo, sul marciapiede, una volta c’erano le impronte dei piedi di Gavrilo, nell’asfalto. Dopo l’ultima guerra, le autorità della città, governate dal principale partito nazionalista bosgnacco SDA (Partito dell’Azione Democratica), le hanno tolte.

La mia amica Djenita mi spiega che l’interno dell’albergo è bellissimo. Durante la guerra del ’92-’95 con i suoi genitori ha vissuto lì dentro per qualche mese: il quartiere della città dove oggi c’è ancora casa sua si trovava sulla prima linea della Sarajevo assediata, ed era pericoloso stare lì. Per questo motivo, sono stati trasferiti nel centro città.

A pochi passi dallo storico albergo e in quella parte della città dove tuttora si nota l’influenza dell’impero austro-ungherese, c’è Baščaršija, il cuore della vecchia città, pieno di negozi di artigianato, caffetterie e ristoranti di cucina tradizionale. Baščaršija, una parola di origine turca, letteralmente significa la piazza principale, ovvero il mercato, dove all’epoca la gente si incontrava per vendere o scambiare la merce. Anche oggi è il luogo d’incontro dei cittadini così come dei turisti che prima della pandemia arrivavano da tutto il mondo. Nonostante non ci siano molti turisti in questi giorni e che Sarajevo sia appena uscita dal lockdown, la città è comunque piena di gente. Noto che nessuno indossa le mascherine, neanche nei luoghi chiusi.

È quasi l’una e dalle numerose moschee si sente il canto della preghiera pomeridiana. Non vedo molte donne velate in giro, sebbene tutti mi avessero detto che dopo l’ultima guerra Sarajevo sia cambiata e che i fondamentalisti islamici abbiano una forte influenza, soprattutto quelli provenienti da Paesi come Arabia Saudita o Qatar. Davanti alla moschea più bella di Sarajevo e quella più significativa nei Balcani, la moschea Gazi Husrev-Beg, ci sono molti credenti che sono venuti a pregare, ma anche alcuni turisti, come me, che fanno le foto. Alcune donne pregano davanti alla moschea, in quanto non possono entrare dentro e pregare insieme agli uomini. Questa moschea è stata danneggiata durante la guerra, come anche molti altri luoghi sacri della città. Venti anni fa è stata in parte ristrutturata, e nel 2016 grazie alla donazione dal governo dell’Arabia Saudita, i lavori sono finiti.

Da Baščaršija non puoi andartene senza assaggiare i ćevapčići, le polpette di carne, il piatto tipico bosniaco, ma anche il piatto tipico serbo e quello croato. Dopo aver mangiato i ćevapčići con lo yogurt, Ismir e Djenita vogliono portarmi alla “kafana di Tito” (kafana - trattoria, bar), che è anche una specie di museo dell’ultimo grande presidente dell’ex Jugoslavia. Un altro personaggio controverso che suscita sia l’amore che l'odio da popoli che appartenevano una volta al grande Paese e oggi ai paesi indipendenti.

È pieno di gente e di bambini che giocano sui vecchi carri armati esposti nel giardino di questo bar-museo. Faccio la foto con la statua di Tito e miei amici mi dicono che è il momento di salire sulle colline della città dove c’è la vista più bella del mondo.

Salendo, Ismir mi mostra i punti da dove i serbi hanno sparato: praticamente da tutte le parti, dalle colline meravigliose che circondano la città. Passiamo anche vicino al parco dove c’è uno dei monumenti più significativi della città, quello con i nomi di 1500 bambini uccisi durante l'assedio. Al parco ci sono anche i resti del vecchio cimitero musulmano.

E’ quasi il tramonto. Vista dall’alto, la città è ancora più bella. Domina la moschea di Gazi Husrev-beg, ma c’è anche la cattedrale, la chiesa ortodossa e la sinagoga, vicine una all'altra come una volta erano vicini i popoli che vivevano in questa città che rappresentava l’incrocio delle culture e religioni diverse.

Sarajevo oggi è divisa. C’è una parte della città, conosciuta come Sarajevo Est, che appartiene alla Repubblica Srpska ed è popolata soprattutto dai serbi. Nonostante il dialogo esista tra i due popoli, ci sono ancora molti cittadini che dopo quasi trent'anni dalla guerra non attraversano il confine con la parte della città in cui vivono i bosniaci musulmani. Purtroppo ci sono ferite che guariscono difficilmente. Ma bisogna essere anche consapevoli e accettare le cose come sono. Per questo motivo, io e miei amici bosniaci possiamo guardare insieme Sarajevo dall’alto, bella e generosa come è sempre stata.

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