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8 settembre 1943. Chi ha rifatto l’Italia

di Carlo Greppi

Infine la guerra arrivò. Varcò le Alpi e travolse la penisola italiana, quella guerra esportata per vent’anni con il piano di dominio fascista in Africa del Nord e in Africa orientale, in Spagna, in Albania, in Francia, in Jugoslavia, in Grecia, in Unione Sovietica, con le truppe di occupazione a massacrare le resistenze locali e le popolazioni civili, accusate aprioristicamente di affiancare il partigianato locale. Alcuni tra coloro che a quella guerra avevano preso parte (inizialmente poche decine, poi a centinaia) avrebbero contribuito alla nascita della Resistenza armata, altri militari – decine di migliaia, soprattutto in Jugoslavia – rimasero a combattere insieme ai partigiani del paese in cui si trovavano. Ma furono eccezioni, alle quali vanno sommati alcuni sporadici casi di resistenza militare (a Cefalonia, a Corfù e a Roma in particolare) e gli oltre 600.000 “no” degli Internati militari italiani. Per il resto, all’8 settembre del 1943, quando il governo Badoglio annunciò l’armistizio firmato con gli Alleati, circa 2 milioni e 700.000 soldati, riusciti a scampare ai nazisti, evaporarono: tornarono a casa nelle zone liberate dagli Alleati o si nascosero, esasperati. I tedeschi – che avevano previsto il “tradimento” italiano da mesi – occuparono repentinamente la penisola e neutralizzarono le forze armate dell’ex alleato nei territori occupati congiuntamente.

La storia politico-diplomatica ci racconta l’ignominiosa fuga del re e dei vertici militari e istituzionali di “una nazione allo sbando”, per citare il libro del 1993 di Elena Aga Rossi (Il Mulino); il vissuto di chi quell’evento lo subì e, soprattutto, di chi seppe reagire, ci dice invece chi seppe rifare l’Italia, allo scoccare di quell’evento cardine. Nell’eclissi delle istituzioni, ad assumersi quella responsabilità fu fin dal principio chi dal regime era stato marginalizzato, piegato e costretto all’obbedienza, perseguitato, incarcerato: i “vecchi” antifascisti, gli stranieri, le donne, i giovani militari; poi, e in maniera crescente, i giovanissimi in età di leva.

Le prime bande, che iniziano a formarsi già dopo il crollo del regime del 25 luglio e soprattutto dopo l’8 settembre, sono composte per lo più da antifascisti di vecchia data – reduci da prigionie, esili, confini, clandestinità, veterani della guerra di Spagna o di altre resistenze – e da quel primo nucleo di militari che, in seguito allo sbando del regio esercito, decide di tenere le armi. Ma se la Resistenza in Italia può crescere è grazie al regolare afflusso, che aumenta esponenzialmente per via dei bandi della RSI. I giovani delle classi 1923, 1924, 1925 e oltre, educati all’obbedienza acritica, mossi da motivazioni per lo più prepolitiche imparano gradualmente il valore profondo dell’impegno, innanzitutto «impara[no] a disobbedire», come ci ha insegnato Claudio Pavone, dando gambe a un lungo «8 settembre prolungato e strisciante» fatto di dilemmi e di scelte difficili, da rinnovare quotidianamente. Possono farlo grazie all’aiuto di una popolazione che non ne può più delle guerre e delle menzogne del regime, come già han mostrato gli imponenti scioperi di marzo, e a fine settembre le “quattro giornate” di Napoli (in realtà 23 giorni, culminati in quei 4) che, come hanno evidenziato Giovanni Cerchia e Isabella Insolvibile, sono un embrione di vera e propria Resistenza in armi. È una patria plurale che torna a vivere, quella del settembre 1943, e la partecipazione di anarchici e ragazzini alla sollevazione napoletana illustra efficacemente il perimetro umano e politico della lotta partigiana ai suoi primi passi: non a caso, per via del suo potenziale dirompente, la rivolta partenopea «non invogliò sicuramente gli angloamericani a favorire i movimenti insurrezionali» in Europa, come ha osservato Olivier Wieviorka nella sua Storia della Resistenza nell’Europa occidentale 1940-1945 (Einaudi 2018).

Mentre il sud insorge e le carceri si svuotano dei vecchi antifascisti e dei prigionieri alleati, la popolazione civile – e in particolare quella contadina – si distingue per un sostegno alle bande, che sarà via via crescente, non senza difficoltà, e per un’iniziale ed enorme operazione di maternage di massa, secondo un’espressione di Anna Bravo: un’opera di assistenza totalmente disinteressata – come quella dei 766Giusti tra le nazioni” italiani riconosciuti dallo Yad Vashem di Gerusalemme, e quella di migliaia d’altri e altre al momento ignoti – messa in pratica in gran parte da donne che nutrono, ospitano e vestono i giovani militari italiani sbandati, e lo stesso fanno con gli stranieri, in precedenza prigionieri, che scompaiono a decine di migliaia agli occhi dei nazisti e dei fascisti della Repubblica sociale italiana (RSI).

E saranno proprio gli stranieri a rinfoltire significativamente il partigianato. Si possono stimare in almeno 15-20.000 i combattenti non nativi nella Resistenza italiana, corrispondenti all’incirca a uno su dieci, giunti in prevalenza attraverso due percorsi speculari: la diserzione dalle forze armate tedesche e la prigionia della guerra fascista, che coinvolge cittadini e partigiani dei paesi via via occupati che i militari dei paesi nemici. Questo canale in particolare fa supporre che nei primi mesi di lotta partigiana, prima che la RSI insista invano a reclutare massicciamente i giovani in età di leva, la proporzione tra nativi e non nativi nei primi nuclei di combattenti sia ancora più impressionante: uno su cinque? O addirittura di più? Sono oltre cinquanta le nazionalità nella Resistenza italiana, che vede schierati anche innumerevoli ebrei – italiani e stranieri – e rom e sinti: dai circa 5.000 sovietici agli etiopi e agli indiani, dalle migliaia di jugoslavi, polacchi e cecoslovacchi agli almeno 2-3.000 tedeschi e austriaci. E non è la sede per addentrarsi sul livello di preparazione militare e sulla coscienza politica di questo nucleo iniziale, certamente comparabile a quello dei “politici” e dei militari delle prime settimane di lotta.

Come dimostra anche il recente filone di ricerca sui partigiani stranieri – ignorati per decenni dalla storiografia e dal discorso pubblico –, gli studi sulla Resistenza in Italia stanno vivendo una nuova, grande vivacità: si pensi, tra le iniziative di questi giorni, alla lectio di Giuseppe Filippetta, che oggi al Polo del ‘900 di Torino inaugura il triennio dedicato all’80° della guerra partigiana proprio a partire dal termine «disobbedire», o ai convegni “8 settembre 1943 – 2023” e “Prime Bande” che si terranno a Paraloup e a Rossana (CN) il 9 e il 16 settembre; e, sul piano della riflessione storiografica, al prossimo lavoro di Chiara Colombini (Storia passionale della guerra partigiana, Laterza), o al volume in uscita di Luca Baldissara, Italia 1943. La guerra continua (Il Mulino): una radiografia di quell’anno terribile e allo stesso tempo meraviglioso, in cui le persone escluse da almeno vent’anni dal progetto di comunità nazionale dell’Italia fascista alzarono la testa, e lottarono per sovvertire il mondo capovolto di allora.

Dalla matrice del settembre del 1943, la guerra partigiana riuscirà a comporre una polifonia, coinvolgendo uomini e donne di ogni generazione e ceto sociale, credo religioso e credo politico, in larghissima misura inquadrati nel CLN, e di ogni nazione.

Carlo Greppi, storico e scrittore

8 settembre 2023

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