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Il "miracolo" di Shanghai

intervista a Nicola Zavaglia

L’incredibile storia degli ebrei fuggiti a Shanghai. L’incontro con Ho Feng Shan, console cinese a Vienna. Un viaggio attraverso i continenti. L’arrivo in una terra lontana, dalla lingua e dagli spazi sconosciuti. L’estrema povertà e la convivenza tra due comunità molto diverse. Tutto questo è contenuto in Above the Drowning Sea, documentario di 90 minuti di Nicola Zavaglia e René Balcer, con le voci di Julianna Margulies e Tony Goldwyn (volti noti per le serie tv The Good Wife e Scandal).

Il film raccoglie le testimonianze degli ebrei arrivati a Shanghai negli anni ’30 e ’40 per fuggire dalle persecuzioni naziste e dei cinesi che abitavano il quartiere di Hongkou.
Storia dopo storia, ciò che emerge è lo sconvolgimento reciproco delle due comunità. Da una parte, gli ebrei che arrivavano in un Paese lontano, in condizioni di estrema povertà; dall’altro, i cinesi che per la prima volta si trovavano a vivere a stretto contatto con degli europei.

A distanza di 70 anni, nel film rivivono ricordi, emozioni, vecchie amicizie e legami mai dissolti. Di tutto questo, e delle connessioni tra questa vicenda e il contesto attuale, abbiamo parlato con Nicola Zavaglia, regista del film.

Come nasce questo documentario?

L’idea iniziale è stata di Cheng Davis, della Columbia University, e di Carolyn Hsu-Balcer, designer, collezionista di arte e produttrice. L’intento era quello di fare un film che celebrasse Ho Feng Shan e il “miracolo” di Shanghai. Bisogna infatti ricordare che, quando gli ebrei riuscirono a lasciare Vienna, al loro arrivo in Cina hanno dovuto vivere proprio accanto alla comunità cinese. Era la prima volta che degli europei si mescolavano con i cinesi - che consideravano solo come servitù - e non si stabilivano nelle sezioni a loro dedicate. Quando gli ebrei di Vienna sono arrivati a Shanghai, hanno dovuto vivere a Hongkou, un quartiere molto povero. Ed è qui che è scattato il “miracolo”: gli abitanti di Hongkou non erano ricchi, ma quando sono arrivati questi europei bianchi, poverissimi, non li hanno rifiutati. 

Grazie anche alla visione di René Balcer, fondamentale per la realizzazione del progetto, abbiamo voluto raccontare tutta questa storia, la storia di un incontro felice in una situazione drammatica. Non dimentichiamo che negli anni ’30 c’era la guerra, lo scontro tra nazionalisti cinesi e comunisti, l’invasione giapponese della Cina…
In questo caos generale, il film racconta la vita fianco a fianco di queste due comunità, le grandi differenze ma anche le amicizie che sono nate.

Ci sono delle storie che ti hanno colpito particolarmente?

Le testimonianze che abbiamo raccolto sono tutte diverse tra loro. Mi è piaciuta molto la storia di una dottoressa che racconta la sua amicizia con gli inquilini ebrei che abitavano davanti a casa sua. Anche dopo la loro partenza, lei non li ha mai dimenticati, e di tanto in tanto va a visitare il Jewish Refugees Museum a Shanghai sperando di poter avere qualche notizia su di loro. Le radici di questo legame erano molto profonde, e nel film si vede che la donna, dopo 70 anni, è ancora molto commossa parlando di loro. C’è poi un altro particolare: le persone che abbiamo intervistato erano tutte dei bambini quando si trovavano a Shanghai. Abbiamo quindi il punto di vista dei giovani di allora, le loro emozioni, e questo è molto commovente.

Quale era la sensazione di entrambe le comunità coinvolte da questo incontro?

Per chi arrivava da Vienna nella Shanghai degli anni ’30, la realtà che si trovava nella città era sconvolgente. Non si trattava solamente di un grande salto nell’ignoto - arrivare in un posto di cui non conosci la lingua, gli spazi, dove tutte le regole che avevi non esistono più -, ma vi era anche il dramma di chi in Europa era benestante e poi in Cina si è trovato sul lastrico. Chi arrivava a Shanghai vedeva la povertà più estrema: i racconti parlano anche di bambini cinesi morti tra i rifiuti, ritirati insieme all’immondizia. Questo livello di sofferenza era sconvolgente persino per chi fuggiva dalle persecuzioni naziste.
Ciò che più ha colpito i cinesi, invece, è stato vedere degli europei abitare tra di loro, perché non erano abituati ad avere a che fare con i bianchi, se non per servirli.

Cosa insegna quindi questa storia di convivenza e riconoscimento dell’altro?

L’arrivo degli ebrei a Shanghai è stata una grande lezione di vita, di umiltà, specialmente per i profughi che hanno visto crollare il loro tenore di vita. Molti si sono organizzati per sopravvivere: hanno intrapreso lavori umili e utilizzato le conoscenze che avevano in Europa. C’erano quindi fotografi di Vienna che hanno avviato degli studi a Shanghai, o altri ebrei che hanno aperto caffè, ristoranti o addirittura negozi di pellicce. Certo, c’è stato anche chi ha vissuto in povertà: un personaggio, Otto Schnepp, nel film racconta quanto fosse difficile per lui sentire sua madre che si lamentava per la fame.
Queste testimonianze possono quindi insegnare non solo che la sopravvivenza è possibile, ma che lo è anche l’incontro tra popoli completamente diversi. I cinesi non si sono ribellati per “l’invasione” degli ebrei - spesso addirittura più poveri di loro -, ma hanno aiutato i perseguitati.
Una delle testimoni, Vera, è stata accolta da una famiglia cinese e ci ha raccontato con molta emozione il bene che ha ricevuto da queste persone. Per questo è tornata molte volte in Cina cercando loro notizie, ma non è mai riuscita a ritrovare chi l’aveva aiutata. Nel film però mostriamo l’incontro tra Vera e quella che lei chiama little sister (sorellina), una bambina cinese con cui giovava a Hongkou. A distanza di 70 anni, non si sono mai dimenticate l’una dell’altra. È stato un momento molto commovente.

Come dicevi, i cinesi hanno accolto chi era tanto diverso da loro. Anche oggi si parla di accoglienza, in riferimento alle nuove migrazioni. Vedi delle connessioni tra questi fatti e la realtà attuale?

Sicuramente il parallelo tra quello che succedeva a quei tempi e quello che succede oggi esiste, e abbiamo cercato di mostrarlo anche nel film.
Negli anni ’30 le porte erano sempre chiuse per gli ebrei, nessun Paese li voleva e per loro restare significava automaticamente la morte. Oggi la situazione è differente perché non per tutti i migranti c’è questo pericolo immediato di essere uccisi, ma il contesto di fondo si equivale: si tratta gente che cerca solo di poter vivere.
L’arrivo di persone diverse crea sempre dei problemi nella quotidianità. È successo anche a me, quando sono arrivato in Canada. La prima reazione è di diffidenza, antagonismo e rifiuto dell’altro… A Shanghai questo non si è verificato: ecco perché si può quasi parlare di un miracolo.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

12 ottobre 2017

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