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Il negazionismo, "parassita" della memoria

intervista a Valentina Pisanty

Il negazionismo è un fenomeno che acquista sempre più visibilità in Italia e in Europa, anche alla luce delle cronache recenti di Ungheria e Polonia. Gariwo ne ha discusso con la Prof.ssa Valentina Pisanty, dell'Università di Bergamo, semiologa e studiosa di negazionsimo. Ecco cosa ci ha detto.


Cosa “negano” i negazionisti, e come si giustificano davanti alle fonti primarie e secondarie, alla luce ad esempio di documenti e di testimonianze dei sopravvissuti?


I negazionisti non contestano l’esistenza dei campi di concentramento e delle deportazioni, sebbene ne relativizzino e ne minimizzino la portata. Ciò che invece negano è l’esistenza di un progetto di sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, e quindi l’insieme dei mezzi tecnici con cui il genocidio è stato realizzato, incluse le camere a gas - che in prospettiva negazionista rappresentano per sineddoche l’intero progetto genocidario nazista. Secondo questi presunti storici (in realtà quasi nessuno di essi è storico di professione) la Shoah è un’invenzione della propaganda postbellica, Alleata e sionista, per estorcere riparazioni di guerra alla Germania sconfitta e per legittimare lo Stato di Israele.
Di fronte alla massa di documenti e testimonianze che attestano l’avvenuto sterminio, i negazionisti considerano ogni prova falsa e/o menzognera, creata ad hoc da fantomatici agenti della propaganda sionista oppure estorta con ricatti e torture nel corso dei processi del dopoguerra. Per smantellare la rete delle testimonianze, si avvalgono di un metodo di lettura ben sintetizzato da Primo Levi in un articolo del 1980: «Trovare una screpolatura, infilarci una lama e far leva; non si sa mai, potrebbe anche crollare l’edificio, per quanto robusto».


Proprio in riferimento al presunto complotto sionista, qual è la relazione tra negazionismo e antisemitismo? I negazionisti sono anche antisemiti?

Senza ombra di dubbio. I negazionisti sono mossi da intenti antisemiti più o meno velati: talvolta espliciti, come nel caso del negazionismo di matrice dichiaratamente neonazista, altre volte - specie in Europa, dove vi è una maggiore cautela a rivelare le proprie ascendenze ideologiche  – più obliqui e larvati. È però facile dimostrare che il negazionismo è comunque spinto da pulsioni antisemite, e in particolare dall’idea-cardine dell’antisemitismo storico, ossia dalla convinzione che gli ebrei siano segretamente intenti a muovere i fili della storia mondiale per perseguire i propri turpi interessi settari.
Data l’abbondanza di prove che insieme dimostrano l’avvenuto sterminio, l’ipotesi negazionista non starebbe in piedi senza la stampella di una qualche versione della teoria della cospirazione ebraica.


C’è una differenza tra revisionismo e negazionismo?

Sì, e in ogni caso bisogna intendersi sul senso delle parole. Il revisionismo in senso proprio è l’unico atteggiamento possibile per la storiografia scientifica: lo storico serio è disposto a ritornare sulle idee qualora emergano nuovi elementi e nuovi documenti che lo inducano a rivedere le sue ipotesi di partenza. Ma se il revisionismo è un atteggiamento scientifico auspicabile, nell’ambito degli studi sulla seconda guerra mondiale è possibile individuare una forma più specifica di revisionismo che taluni propongono di chiamare “riduzionismo” perché persegue lo scopo di ridimensionare la portata della Shoah e dei crimini nazifascisti. Secondo Ernst Nolte, per esempio, i lager nazisti sarebbero la risposta di Hitler alla minaccia dell’espansione bolscevica, e la macchina di sterminio messa in moto dai nazisti non sarebbe poi molto diversa da altri episodi che hanno insanguinato la storia contemporanea, a partire dai gulag sovietici, che Nolte equipara ai lager nazisti. Ci sono buoni motivi per ritenere che Nolte miri alla  relativizzazione della Shoah e dei crimini nazisti, in base alla logica per cui “se tutti sono colpevoli, allora nessuno è colpevole”. E tuttavia, mentre il revisionista/riduzionista argomenta le sue tesi discutibilissime a partire da una base storiografica accettata (l’avvenuto sterminio degli ebrei), il negazionista rifiuta questa stessa base. Per il negazionista, l’inesistenza delle camere a gas è un dato posto come inconfutabile, a partire dal quale riscrivere radicalmente la storia della seconda guerra mondiale, rifiutando aprioristicamente qualunque documento o testimonianza che attesti l’esistenza dello sterminio.


Nell’era di Internet è aumentata la visibilità dei negazionisti. Ma qual è più in generale la loro strategia comunicativa? Si è evoluta negli anni?

Questo è un problema complesso, su cui sarebbe necessario riflettere più a fondo. Sicuramente negli ultimi anni i negazionisti hanno raggiunto una visibilità maggiore grazie a Internet. La rete si è rivelata un’ottima soluzione contro la censura che, in alcuni paesi europei, colpisce i loro scritti. Come si sa,  lo spazio informatico è aperto a tutti, e anche se si decide di oscurare un sito ritenuto ideologicamente pernicioso, esistono innumerevoli modi per aggirare il divieto. Addirittura, le censure finiscono per potenziare il fenomeno in senso virale, alimentando il vittimismo di chi si sente perseguitato dalla cospirazione dei “poteri forti” (nella fattispecie identificati con la presunta lobby ebraica dell’informazione) e da tale supposta persecuzione trae il senso della propria legittimità culturale. Anche per questo motivo il negazionismo ha trovato in internet il proprio habitat ideale, come si evince dalla proliferazione di siti e blog che ospitano questo genere di contenuti, talvolta in modo superficiale e disinvolto, altre volte più mirato e consapevole.
Non credo tuttavia che l’utilizzo strategico di Internet implichi una modifica sostanziale delle strategie retoriche adottate dagli autori in questione a sostegno delle proprie tesi: il metodo che è stato messo a punto negli anni ’80 e ’90 dai negazionisti “tecnici” per smontare e delegittimare i documenti che attestano l’avvenuto sterminio non ha subito sostanziali mutamenti da allora, e gli argomenti restano sempre gli stessi. Piuttosto, la novità consiste nell’accresciuta capacità, da parte dei negazionisti “divulgatori”, di sfruttare a proprio vantaggio il circuito mediatico ai fini di una disseminazione capillare delle proprie tesi, facendo leva proprio sulle reazioni di ripulsa che questi discorsi suscitano. In rete, come del resto negli altri media (inclusi i giornali), la provocazione tende a essere premiata con impennate di visibilità, sia pure accompagnate da ondate di sdegno. Negli ultimi decenni, la sequenza “provocazione negazionista – scandalo mediatico – accorato dibattito pubblico circa i limiti della libertà di espressione” inaugurata da Robert Faurisson nel 1978 si è ripetuta più e più volte, consentendo ai negazionisti di appropriarsi del ruolo (immeritatissimo) di eretici oppressi da un’ortodossia storiografica gelosa dei propri assiomi.
Quanto all’efficacia di queste strategie, ossia alla capacità che hanno di scalfire l’opinione di chi è esposto alle tesi negazioniste, è molto difficile misurarla. Non è affatto detto che chi si imbatte in un sito o in un post negazionista sia automaticamente persuaso dai suoi contenuti, o li prenda in seria considerazione. Dipende dall’atteggiamento più o meno cooperativo, più o meno coinvolto, più o meno informato, più o meno ideologicamente orientato, con cui visita queste pagine: molti ci finiscono per caso, per curiosità, per morbosità, per polemica, oppure ci credono solo a metà, in modo disimpegnato, a metà tra la sospensione dell'incredulità e il crederci per davvero... L’argomento è davvero complesso e andrebbe per l’appunto approfondito.


Esiste una relazione tra la costruzione della memoria e il negazionismo?

Mi sono occupata di questo aspetto in un libro, Abusi di memoria, in cui ho analizzato i dispositivi della memoria che sono caratteristici del nostro tempo. La banalizzazione, innanzitutto, ossia la riduzione del passato alle esigenze del presente, a schemi narrativi facilmente assimilabili, divulgabili, ma anche strumentalizzabili in senso sia commerciale (lo sfruttamento spettacolare della Shoah, per esempio), sia politico-ideologico (le equiparazioni indebite tra la Shoah e altri massacri storici, per esempio). La banalizzazione innesca un secondo dispositivo di segno opposto, ma polemicamente solidale: la sacralizzazione. Qui si tratta di isolare una porzione di passato – solitamente un’esperienza traumatica - dal presente, dal flusso della storia ordinaria, per decretarne il carattere “unicamente unico”, quasi metastorico, per chiuderla in una teca (“guardare ma non toccare”) e dunque per proteggerla dalle incursioni dei banalizzatori per mezzo di un sistema di tabù e di interdizioni (per esempio, le “leggi della memoria”). Il negazionismo è un terzo dispositivo che si inserisce parassitariamente nel macro-ingranaggio retorico della memoria, traendo una paradossale legittimazione dagli altri due. Dalle interdizioni sacralizzanti, da una parte, e dalla volgarizzazione banalizzante, dall’altra, il negazionismo ricava linfa vitale come una pianta che si nutrisse di diserbanti.
Non è una coincidenza che il caso Faurisson sia scoppiato in Francia nell’inverno del 1978-79, proprio nei mesi in cui la stampa occidentale discuteva animatamente della miniserie TV Holocaust, l’evento mediatico che forse più di ogni altro ha proiettato la Shoah al centro della memoria collettiva, con tutti gli effetti banalizzanti e i contraccolpi sacralizzanti che tale operazione commerciale ha comportato.  


Secondo lei ci sono affinità tra il negazionismo della Shoah e la negazione del genocidio armeno?

Ci sono sicuramente delle affinità, il metodo è molto simile. La differenza sta nel fatto che per il genocidio armeno si tratta di negazionismo di Stato, con ripercussioni politiche molto forti. Comunque sia, il negazionismo è un dispositivo retorico che si può applicare a diversi contesti storici.

3 giugno 2013

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