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La vera storia di come i nazisti sono tornati nel Parlamento tedesco

Perché il fallimento della denazificazione nell'ex DDR alimenta l'estrema destra in Germania

Leon Kohl è giornalista freelance e studioso presso la London School of Economics and Political Studies e la Studienstiftung des deutschen Volkes (Fondazione studi sul popolo tedesco). Ha pubblicato su Haaretz un'analisi del voto tedesco, concentrandosi in particolare sul vasto consenso ottenuto dall'estrema destra anti immigrazione e neonazista in Germania, soprattutto nei territori dell'ex DDR. Eccola di seguito tradotta.

Nel congresso che doveva determinare la leadership nel partito di estrema destra Alternativ für Deutschland, noto come Afd, Alexander Gauland è stato eletto co-presidente. Questa è stata un’ulteriore vittoria per l’ala völkisch-nazionalista del partito (völkisch, da “Volk”, popolo – Hitler usava spesso questo aggettivo per indicare quelli che dovevano essere i valori della nazione tedesca sotto il suo regime, NdT), che aveva bloccato il tentativo del relativamente moderato Georg Pazderski. Gauland, che è già copresidente dei parlamentari del partito e in un’occasione aveva incitato i tedeschi a essere “fieri dei successi dei soldati tedeschi” nelle due guerre mondiali, ha ottenuto il 67,8% dei voti.

Nelle elezioni politiche di settembre, quasi il 13 percento dell’elettorato tedesco ha votato per il partito di estrema destra anti immigrati Afd, alcuni dei cui politici di più lungo corso hanno definito il Memoriale della Shoah di Berlino un “monumento della vergogna” e domandato una “svolta a 180 gradi” nel modo in cui la Germania affronta il suo passato.

Con i suoi molti voti presi in tutta la Germania, l’Afd in particolare ha raggiunto il secondo miglior risultato fra tutti i partiti nei territori della ex Repubblica Democratica Tedesca governata dai comunisti e, con il 27% dei voti, è il partito più votato dagli uomini tedesco-orientali.

Cercando di spiegare il successo dell’Afd, gli analisti hanno spesso indicato tra le cause la perdurante relativa debolezza dell’economia tedesco-orientale. Tuttavia, la maggior parte dei sostenitori dell’Afd non sono elettori “rimasti indietro”. Secondo le ricerche, pur non avendo l’Afd un elettorato omogeneo, la maggior parte dei suoi elettori è costituito da maschi, con un livello di istruzione medio e collocati nel ceto a medio reddito. Inoltre, l’Afd ha ottenuto più voti di ogni altro partito in Sassonia, il Land più ricco della Germania orientale.

La particolare attrattiva che la posizione anti immigrazione dell’Afd e le sue istanze di interpretazione revisionista della storia tedesca esercitano nei Länder orientali si possono spiegare come un sintomo dell’eredità comunista della Germania Orientale – e con il fallimento della sua denazificazione.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il regime tedesco-orientale ha cercato di eludere le sue responsabilità storiche dichiarando che il razzismo di massa era stato superato, svolgendo un programma incompleto di denazificazione, introducendo un nuovo sistema socioeconomico e descrivendo la Germania occidentale come l’unica erede del retaggio nazista.

Tali politiche statali hanno avuto l'effetto di rendere il passato nazista un tabù, di cui addossare tutta la responsabilità al “nemico di classe” occidentale. Ciò ha portato a quello che la storica Mary Fulbrook ha definito “amnesia collettiva” e perpetuato il concetto di uno Stato etnicamente omogeneo, come pure all’esistenza subliminale, ma persistente, del pensiero nazionalsocialista e reazionario nella Germania orientale.

Anche se gli sforzi di denazificazione iniziali nella Zona Sovietica di Occupazione erano di portata molto più ampia che nelle zone occidentali – e condussero all’epurazione di circa 520.000 ex membri del partito nazista dall’esercito, dalla burocrazia statale e dall’economia -, le autorità comuniste decisero, all’improvviso, nel 1948, che l’ulteriore denazificazione sistematica era un ostacolo alla ricostruzione economica e politica.

Walter Ulbricht, il primo segretario generale del partito al potere, osservò che “non possiamo permetterci di essere spinti indietro dalla storia antica”, e concluse dichiarando il “successo” della sua politica.

Il regime quindi si girò dall’altra parte di fronte alla persistenza di idee xenofobe e reazionarie. Quell’informale “patto pragmatico del silenzio” tra il regime e i tedeschi costituiva una tregua tra il il Partito di Unità Socialista e gli ex nazisti, che sarebbero stati riabilitati in cambio della loro acquiescenza allo stabilirsi di una nuova dittatura.

La soppressione di ogni responsabilità per le atrocità dei nazisti fu aiutata dalla concezione marxista-leninista del fascismo. La dottrina comunista considerava il fascismo l’estrema forma del capitalismo. Cambiando le strutture socioeconomiche dello Stato, si sosteneva che i comunisti sarebbero stati in grado di liberare la società dagli elementi fascisti e antisemiti. Per contro, l’Ovest era ancora contaminato dal germe del fascismo perché non aveva rotto con il capitalismo – l’origine di tutti gli orrori del regime nazista.

La DDR comunista traeva la propria legittimità dal mito che si trattasse di uno Stato antifascista e tutta la sua popolazione avesse fatto parte delle forze progressiste che guidavano la Resistenza contro il nazismo. Il socialismo era una giustificazione per esonerare la classe lavoratrice da ogni responsabilità e abdicare fin dall’origine all’assunzione di ogni “colpa collettiva”.

Il passato del Paese fu oggetto di un colpo di spugna molto efficace, e una coltre di silenzio coprì il retaggio nazista e gli aspetti di continuità con il Terzo Reich. Nel 1953, Bertolt Brecht criticò lo scarso impegno della DDR nell’affrontare il passato nazista, quando scrisse la cosa seguente: "Abbiamo voltato le spalle troppo presto all’immediato passato nella nostra ansia di affrontare il futuro. Esso tuttavia dipenderà dai conti che facciamo con il passato".

La mancanza, in Germania Orientale, di un sistema politico pluralistico e di media critici, liberi e indipendenti, contribuì allo sviluppo di quella amnesia collettiva che circondava il passato nazista. L’assenza di altri poteri entro lo Stato che potessero controllare il regime sicuramente spiega il fatto che 12 ex ufficiali nazisti avessero potuto divenire parte del Comitato Centrale del partito al potere entro il 1965.

Anche se i suoi sforzi di denazificazione furono imperfetti, almeno la Germania Ovest aveva un sistema pluralistico che permetteva di mettere continuamente in discussione il suo rapporto con il passato, secondo il modo di affrontarlo che va sotto il nome di Vergangenheitsbewältigung – elaborazione del passato.

Il pericolo esplicito di un persistente razzismo e il tabù che circondava il passato nazista divennero evidenti nei primi anni ’50, quando un’ondata di antisemitismo diretta dal potere statale, che si era già sviluppata in Unione Sovietica tra il 1948 e il 1953, arrivò anche nella DDR.

L’isteria della Guerra Fredda, il deteriorarsi delle relazioni con Israele e i conseguenti tentativi di attrarre i Paesi arabi nell’orbita sovietica, come pure il personale antisemitismo di Stalin, confluirono tutti in una campagna che prendeva di mira la popolazione ebraica accusata di slealtà e “cosmopolitismo”.

Nel 1953, diversi membri delle comunità ebraiche tedesco-orientali furono accusati di essere “spie sioniste”: vi furono interrogatori, le organizzazioni ebraiche furono dissolte e molti ebrei persero il lavoro. Questa campagna apertamente antisemita sfociò in una fuga di massa dei cittadini ebrei in Germania Ovest e mostrò anche come il regime si sforzasse di trasformare la DDR in uno Stato etnicamente e ideologicamente omogeneo.

Per di più, il regime mise da parte la “questione ebraica”. Mentre la lotta comunista contro il nazismo costituiva il mito fondativo della DDR, si temeva che il fatto di riconoscere la sofferenza degli ebrei potesse minare la legittimità del regime. L’accento posto dal partito al potere sulla sofferenza comunista si venne dunque a basare sul negazionismo della Shoah.

Nel 1953 la versione tedesco-orientale della Grande Enciclopedia Sovietica non menzionava affatto gli ebrei in tutte le 12 pagine della sua voce sulla “dittatura hitleriana”. Essa affermava che durante la Seconda Guerra Mondiale, “parte della popolazione in questi Paesi [dell’Europa orientale] prima di tutto gli slavi, furono bestialmente sterminati".

Gli anziani membri del Partito come Paul Merker, che non era personalmente ebreo, che si opposero a questo approccio alla questione di affrontare il passato nazista, erano favorevoli all’idea di uno Stato ebraico e richiedevano la restituzione delle proprietà ebraiche, e furono messi a tacere violentemente.

In una risoluzione di partito crudamente antisemita dopo l’arresto di Merker, questi fu descitto come il capo di una congiura che cercava di ottenere la “trasformazione [del Paese] in uno stato vassallo dei monopoli americani” il cui modello era la Germania di Hitler. Merker fu accusato di avere collaborato con gruppi sionisti – o per interessi capitalistici “nazionalisti ebraici” come pure con “l’imperialismo USA”, che brandivano l’accusa di antisemitismo per screditare “i compagni vigili e più avanzati”.

La risoluzione ricorreva ampiamente all’uso della retorica nazionalista che contrapponeva il popolo tedesco sotto assedio da parte di una cospirazione internazionale e sionista con legami con gli “imperialisti” occidentali – ai “nazionalisti borghesi ebrei”, un elemento capitalista straniero che usava le armi del “cosmopolitismo” e cercava di opprimere il “pacifico” popolo tedesco…

Non solo questo capovolgeva la storia e rievocava modalità e luoghi comuni tipici dell’era nazista, ma era un tentativo di unire tutti i tedeschi contro una presunta congiura ebraica straniera. Si proponeva l’idea che la creazione di una comunità nazionale omogenea rendesse necessario lo smembramento delle comunità ebraiche come entità indipendenti, oltre che un taglio dei loro legami con i correligionari dell’Ovest.

Il tentativo della DDR di creare uno Stato nazionalmente, culturalmente e ideologicamente omogeneo, la sua ansia nei confronti delle differenze e i tentativi di espellere gli elementi “stranieri” sono un retaggio che l’estrema destra tedesca di oggi sta sfruttando con entusiasmo.

L’AfD cerca di presentarsi come un partito che cerca di restaurare il presunto “mondo intatto” del passato. Deriva il suo potere di attrazione in Germania Orientale dai suoi richiami a ritornare a, o almeno a proteggere, una società ampiamente omogenea dal punto di vista etnico, e dalla sua negazione della responsabilità tedesca per le atrocità del regime nazista.

Quell’ethos pervasivo significava che quando molti tedeschi dell’est si confrontarono per la prima volta con la Erinnerungskultur (cultura della memoria) della Germania occidentale, dopo la riunificazione, si sentirono estraniati. L’Afd è riuscita a sfruttare questo sentimento di estraniamento e a manipolarlo per fare passi avanti con i propri obiettivi.

Le domande dei politici dell’Afd, leader in Germania est, di compiere una svolta a U nel modo in cui la Germania affronta il proprio passato nazista, costituiscono di fatto un rifiuto del modello tedesco-occidentale di affrontare tale passato, e in molti modi rappresentano un desiderio di tornare ai giorni di negazionismo della Repubblica Democratica Tedesca.

Il revisionismo storico dell’Afd, e le sue derive negazioniste della Shoah, rimangono il vero scoglio che impedisce al partito di diventare un accettabile partner di coalizione per i partiti tedeschi dell’arco costituzionale.

Mentre il Cancelliere Angela Merkel sta cercando ancora disperatamente di formare una coalizione, il successo dell’ala etno-nazionalista al congresso di partito dell’Afd ha posto l’enfasi sul fatto che il partito non vuole rinunciare alle posizioni estremiste per poter diventare un partner ammissibile di una coalizione futura – anzi, le sue simpatie con le idee dell’era nazista sono una parte fondamentale del suo DNA politico.

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