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I copti nell’Egitto di Nasser. Tra politica e religione (1952-70)

di Alessia Melcangi Carocci, 2017

Alessia Melcangi è una giovane ricercatrice molto preparata, che si occupa da anni della storia contemporanea del Medio Oriente, in particolare dell’Egitto. Ha condotto questo studio nell’ambito del Progetto “Stato, pluralità, cambiamento in Africa”, condotto dall’Unità di ricerca dell’Università di Catania, diretta dal prof. Federico Cresti su “Minoranze e stato-nazione nell’Africa mediterranea”.

Il periodo esaminato abbraccia l’arco temporale della presidenza Nasser, che coincide con la trasformazione dell’Egitto in moderno Stato-nazione; e - all’interno di questo processo - con una nuova definizione della “questione copta”.

L’autrice mette in evidenza le diverse sfaccettature di un’evoluzione segnata da contraddizioni fondamentali, che ne avrebbero minato la stabilità, producendo ulteriori cambiamenti in senso contrario alla direzione impressa - o perlomeno dichiarata - da Nasser.
Innanzitutto il tentativo di superare l’islamizzazione della società, prevalsa negli anni Trenta e Quaranta - dopo la fine della dominazione inglese - per rivendicare, con il nuovo assetto statale repubblicano, l’unità nazionale come base laica in grado di unire le diverse confessioni sotto il vessillo della pari dignità, dell’eguaglianzia di diritti e doveri per tutti i cittadini, in una nuova dimensione di libertà (almeno religiosa).

In realtà, sotto l’ombrello ideologico del socialismo e del nazionalismo arabo, si stava delineando un modello opposto, dove l’Islam veniva dichiarata religione di Stato, nel diritto privato entrava la sharia come sistema di norme, e la nuova classe dirigente - interamente musulmana - legata all’esercito, protagonista del colpo di Stato del 1952, tagliava fuori dai posti di potere l’élite copta laico-borghese, legata al vecchio regime. Nasser, facendo leva sulle divisioni interne alla comunità cristiana, si espresse a favore del suo clero, con cui allacciò rapporti molto stretti, condizionandone le scelte fino a intervenire direttamente nel dettare le condizioni e le procedure per l’elezione del patriarca. In questo modo i copti, sempre più coinvolti nel regime sotto il vessillo del nazionalismo, in realtà abdicavano alla loro autonomia religiosa e civile, interamente assoggettati al nuovo sistema di potere nasseriano.

Anche in questo dipanarsi delle dinamiche interne alla comunità, in relazione all’evolversi esterno degli assetti politici, Melcangi mette in evidenza la contraddizione fondamentale per cui, se da un lato tale processo permise al clero di affermarsi e prevalere con le sue strutture, rafforzando il proprio ruolo di rappresentanza dell’unità dei copti, ma a prezzo di diventare ostaggio del regime; dall’altro lato questo ripiegamento interno, clericale e spirituale, diede impulso alla vita e all’identità della comunità, sempre più orgogliosa di esprimersi non come minoranza religiosa, ma come componente attiva della società, nel suo qualificarsi come parte integrante della nazione, nel nuovo, moderno Egitto, cui sentiva di appartenere a pieno titolo.

Alla morte di Nasser e, poco dopo, di Cirillo VI, il patriarca copto alleato del rais in questo scenario, i loro successori - con la radicalizzazione del processo di islamizzazione della società e la speculare marginalizzazione dei cristiani - si trovarono su fronti opposti, e i copti pagarono pesantemente la scelta dei loro dirigenti religiosi, che avevano accettato di sottomettersi al potere politico per miopi calcoli contingenti di rivalsa all’interno della comunità. Questa condizione si acuì e perpetuò durante il lungo “regno” di Hosni Mubarak, con esiti disastrosi. Durante le rivolte che portarono alla sua caduta, i copti vennero identificati come alleati di un regime odioso e sanguinario, con i relativi epigoni tragici che sono oggi sotto gli occhi di tutti.

È questo un meccanismo tipico del riflesso “pavloviano” che attanaglia le minoranze nei Paesi in cui tale condizione viene vissuta come sinonimo - o almeno rischio - di emarginazione e potenziale persecuzione. Le élite si affidano al potere dominante illudendosi di trovare lì un rifugio sicuro e ciò scatena, nella percezione collettiva maggioritaria, l’idea della connivenza dei gruppi deboli, minoritari, con le malefatte del regime oppressivo, in cui sono automaticamente inseriti come protagonisti e manipolatori.
I progrom riguardanti gli ebrei, nel corso dei secoli in Europa, ne sono una testimonianza tanto abbondante quanto agghiacciante. Gli esiti delle primavere arabe, gli episodi di violenza, l’incendio delle chiese, gli attacchi dei gruppi terroristici ai fedeli riuniti nei luoghi di culto durante le ricorrenze religiose più simboliche, attestano della gravità della degenerazione delle condizioni di vita delle minoranze nei Paesi attraversati dalla deriva fondamentalista.

Possiamo dunque affermare, come sottolinea nella Prefazione Bernard Heiberger, che il paradigma delineato in questo pregevole volume, “incentrato sull’Egitto di Nasser, costituisce una valida introduzione a una storia più globale dell’evoluzione delle minoranze cristiane del Vicino Oriente nel corso dell’ultimo mezzo secolo, segnato dal nazionalismo arabo e dai regimi autoritari a cui hanno dovuto adattarsi”.

La stessa autrice conclude dicendo che il suo lavoro “si è proposto di restituire un’immagine nuova della relazione complessa tra la comunità copta d’Egitto e la leadership nasseriana al potere fino al 1970, ma anche di analizzare l’evoluzione sociale della realtà egiziana, del dibattito religioso al suo interno e di questioni più ampie, quali il processo di democratizzazione del mondo islamico, l’affermazione delle libertà religiose, l’abbattimento delle barriere che discriminano le minoranze e l’affermazione dei diritti di cittadinanza”.

Ulianova Radice, già direttrice e cofondatrice di Gariwo

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