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La sponda oltre l’inferno

di Younis Tawfik Oligo Editore, 2021

I sommersi sono spesso la cronaca quotidiana. Inghiottiti dal mare, al largo della Libia o di Lampedusa, non hanno quasi mai una tomba. Talvolta nemmeno un nome da mettere su una lapide. I salvati, quelli che ce l’hanno fatta per capirci, diventano un simbolo e finiscono qualche volta in un libro. Così è più difficile dimenticarci di loro, che spesso sono solo un numero buono per le statistiche, da quando i migranti sono diventati emergenza nazionale. Come se non si migrasse da sempre, da quando sono nati gli uomini. 

Younis Tawfik, in questo La sponda oltre l’inferno, un romanzo pubblicato da Oligo, ha raccolto cinque storie vere e le ha srotolate lungo le pagine di un romanzo, perché non si perdessero. Younis Tawfik è nato a Mosul, in Iraq. Nel 1979 si trasferisce a Torino, dove nel 1986 si laurea in Lettere. Successivamente, si dedica alla divulgazione della letteratura araba, traducendo autori quali Gibran, e collabora come opinionista con diversi quotidiani. Oggi presiede il Centro culturale italo-arabo di Torino Dar al-Hikma, che in arabo vuole dire Casa della Sapienza, ed è membro della Consulta islamica in Italia. Ha pubblicato libri di poesia e vari saggi e romanzi. In questo suo ultimo lavoro, La sponda oltre l’inferno, Younis Tawfik dà voce a cinque salvati che, sotto il cielo illuminato dalla luna di Lampedusa, raccontano delle loro vite ordinarie, dell’Africa da cui sono fuggiti, dei campi di detenzione in Libia - che sono peggio di un carcere e assomigliano di più ai lager, aguzzini compresi -, dei barconi, che è un miracolo se non affondano, e di quelli che non ce l’hanno fatta, che sono così tanti che si è perso il conto. E ci si ricorda di loro se c’è un anniversario da celebrare che si considera degno, solo se i sommersi sono davvero tanti. Come se fosse un numero a fare la differenza.

Chi si è salvato talvolta preferirebbe essere morto. Come Hamid Mukhtar, che ha 36 anni ed è scappato da Tripoli dove faceva l’avvocato per diventare un migrante clandestino, che a pensarci bene non è nemmeno una categoria. Si era messo in viaggio con la moglie Siham e la figlia Nadia di dieci anni, perse per mare, chissà se vive oppure no, prima di approdare su questa spiaggia, che allora non è nemmeno un sollievo, ma solo una sponda dell’inferno. Poi c’è chi l’inferno lo conosce bene per averlo già attraversato, come Fnan, che viene dall’Eritrea, «bellissima. Ha occhi grandi, neri come la notte stellata sul deserto, acuti e penetranti da mettere in imbarazzo». Anche lei è stata in un campo libico, dove essere donna è quasi una colpa, bellissima solo un aggravio di sofferenze grazie ai guardiani di uomini che non si fermano davanti a nulla. Figuriamoci davanti a una donna, per di più bellissima. E chi l’inferno se lo porta in testa o come una cicatrice. Si chiama Hassan, arriva dal Darfur, dove i jihadisti gli hanno ucciso il padre e bruciato la casa. In Libia c’era arrivato a quattordici anni, insieme alla madre, insieme avevano vissuto il peggio di tutto. Ancora adesso che è più grande, dicono abbia ancora lo sguardo di un bambino, ma nel profondo del suo sguardo sembra già un vecchio che ha sperimentato il peggio della vita. Marwan è un contadino siriano nato nel paese sbagliato. Lui è cristiano. La Primavera araba, che doveva essere l’inizio di un vento nuovo per lui, diventa un uragano che spazza via tutto. «La rivolta degenerò, e divenne guerra, guerra civile, guerra… incivile, come è ogni guerra, guerra contro i civili!». Dalle pieghe della guerra spunta l’Isis. Per i cristiani è morte certa. Fuggire è l’unica speranza. I campi libici sono il primo approdo. Non è l’Eden, è solo l’inizio di un altro inferno.

Younis Tawfik scrive un libro fondamentale, impregnato di una grande sensibilità, per farci conoscere questi viaggi disperati che durano anni, attraversando deserti e solcando mari, e che rischiano giorno per giorno di interrompersi definitivamente. E la morte non è certo il pericolo più grande. Ci sono sofferenze ancora più forti e drammatiche, che lasciano indelebili cicatrici sulla pelle, incubi notturni e diurni a turbare il sonno e le veglie e che scavano solchi profondi nell’anima. I protagonisti descrivono eventi terribili che a volte conosciamo per avere già letto o ascoltato, e ogni volta è uno schiaffo alle nostre vite tranquille e pasciute di occidentali. Non sono però le scene forti a trasmettere il vero messaggio, ma la testimonianza di storie tristemente comuni. Talmente note pure a chi ancora deve mettersi in viaggio, ma non per questo vi rinuncerà. Il perché lo spiega Fnan sotto la luna: «Vi ho promesso che vi avrei detto perché il paradiso è sempre avanti. Giusto? È facile. Perché è irraggiungibile. Se lo fosse, sarebbe una delusione, e allora il mondo smetterebbe di cercarlo, il paradiso, e morirebbe». Certe cose raccontate in questo romanzo, che non è nemmeno un romanzo, non dovrebbe essere nemmeno possibile immaginarle, ma purtroppo sono atrocemente reali. Questo libro ci aiuta a non dimenticarcene.

Fabio Poletti, giornalista, NuoveRadici.world

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