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Il pane perduto

di Edith Bruck La nave di Teseo, 2021

"È il solo modo che conosco di scrivere, dentro un qualche estremo. Si chiami Shoah, che pure ha una irriducibile unicità, oppure malattia. Per me scrivere era e resta una forma di terapia. La carta sopporta parole che neppure lontanamente immaginiamo”. Così ha detto, qualche anno fa, Edith Bruck al giornalista Antonio Gnoli.

La vita di questa straordinaria donna, scrittrice e poetessa, si fonde con la sua scrittura.

Quando la sorella Judit, dopo essere sopravvissute ai campi di concentramento, cerca di convincerla ad andare con lei in Palestina perché “Qui non c’è posto per noi, che vuoi fare?”, Edith risponde: “Scrivere” … "A chi scrivi?” “A me” … "Io ho bisogno di scrivere adesso… per necessità, per respirare”( p. 72). Come disse a Judit, molti anni dopo, “Anche i libri sono figli”(p. 117), quei figli che Edith non ha generato nella carne ma che sono il frutto di quel travaglio in cui “mi sono partorita da sola”. E allora scrive sempre di più perché “le parole da dire stanno aumentando, se fossero bambini concepiti ne partorirei tanti quanti ne sono stati annientati” (p. 83).

Edith Bruck, come Primo Levi di cui è stata cara amica, ha sentito subito quest’urgenza di scrivere “Perché la vita sa essere brutale, feroce, iniqua. Ma anche con delle sorprendenti aperture alla luce."

È servito scrivere? "Sì, è servito. È stato il ponte tra il silenzio e il mondo.” Un modo per tenersi in vita e riportare “alla vita tutti i miei cari tragicamente scomparsi”.

Ne “Il pane perduto” Edith ragazzina guarda la vita così com'è: povertà, fame, brutalità e ferocia unite a bellezza, leggerezza, sogni, miracolo. Ogni pagina di questo libro afferra il lettore in modo quasi prepotente: le parole, spesso evocative e poetiche, sono immagini nitide da cui è impossibile distogliere lo sguardo e il cuore.

I giovani l’hanno subito premiato questo libro: perché è sincero e prepotentemente vivo.

Nella prima parte in cui l’autrice racconta gli anni in Ungheria, la povertà e la deportazione ad Auschwitz, Dachau, Bergen -Belsen le parole non fanno sconti alla realtà: descrivono la brutalità della violenza e dell’orrore. Eppure irrompe “il miracolo”: il primo ha le sembianze del soldato tedesco che le getta addosso la gavetta perché la lavi ma “nel fondo mi aveva lasciato della marmellata, che per me era la speranza, il bene del cielo e della terra, la forza per andare avanti, la volontà di sopravvivere e credere che in fondo al buio c’è la luce” ( p.46). Poi il secondo miracolo: il cuoco della cucina del castello dove soggiornano gli ufficiali con le famiglie e dove anche Edith lavora, le chiede: COME TI CHIAMI? Qualcosa di incredibile per me, numero 11152”. Anche lui aveva una bambina come lei e le regala un pettinino: "E se non era lui Iddio, chi era?. Mi sentivo rinata. Avevo un nome, esistevo” (p. 47). A Bergen- Belsen, nel campo maschile, ordinano ai sopravvissuti di trascinare, con degli stracci avvolti alle caviglie, dei cadaveri nella tenda della morte… Davanti alla piramide di quei poveri corpi, Edith non vuole più vivere, ma Judit, la sorella, la scuote e con altre quindici ragazze accettano, in cambio di una doppia zuppa con pane, di portare dodici giubbotti ciascuna ai militari della stazione vicina. Stremata Edith ascolta il consiglio della sorella: quando sarà buio, butta quattro giubbotti per alleggerire il carico. Una guardia se ne accorge: chi è stato? Edith fa un minuscolo passo in avanti per non mettere in pericolo le altre e viene colpita, crolla sanguinante nella neve. Judit aggredisce il soldato che non avrebbe mai immaginato un gesto simile. Davanti alle due sorelle strette nell’ultimo abbraccio prima di morire, il soldato invece di sparare fa un discorso: Se “una lurida ebrea ha il coraggio di mettere le sue mani su un tedesco, se ce la fa, merita di sopravvivere. Dio vi maledica!” (p. 57) Terzo miracolo, ma giunte al campo l’uomo è sparito, la zuppa non è doppia e il pane non c’è.

Il lettore, alla descrizione della fine della guerra, si augura di accompagnare Edith nel suo percorso di rinascita: ma la vita “brutale, feroce e iniqua” che nell’orrore ha donato inaspettati spiragli di luce, ora, nella condizione di salvezza, non tace la cattiveria e la meschinità umana.

Tra i primi incontri, quello con la sorella Mirjam, “più respingente che accogliente, e il nostro cuore si rattrappì”: la sua leggerezza di prima è svanita, le scarse possibilità economiche la mettono in difficoltà, Edith e Judit non sono libere neppure di parlare. Mirjam non vuole sapere. Così come Sara, la seconda sorella che, sposata a un uomo ricco, poi emigrerà in Argentina e prima di morire le dirà: "Edith sarei campata dieci anni di più se tu non fossi mai tornata dai lager”, forse per senso di colpa, per quello che non aveva vissuto direttamente. “La nostra voglia di dire ci fermentava dentro; al contrario di Judit io mi stavo gonfiando di parole” ( p. 69)

Le nostre vere sorelle e fratelli sono quelli del lager… "è per questo che io parlerò alla carta…la carta ascolta tutto” ( p. 73).

Nella solitudine di un mondo che per lei è estraneo, a sedici anni sperimenta la disperata umiliazione di legarsi ad un uomo che “mi mangiava con un sorriso bianco, con un’ombra di cinismo e qualcosa di falso negli angoli della bocca vorace”. Perché, si chiede, ho lasciato che la violenza si compisse senza una carezza? “Mi buttavo via, io? Volevo gettare alle ortiche la mia vita inutile, la mia giovinezza in un mondo abbruttito… e mi disprezzavo. O lo amavo? Ero malata? O assetata di amore perché c’era una persona per la quale esistevo?… Perchè? Perchè?" (p. 77).

Arrivata in Israele, le terra promessa favoleggiata tante volte da sua madre, Edith non si trova bene: non le piace quel mondo e non può cambiarlo. Ma sa per certo che non vuole fare la soldatessa perché non vuole “né ammazzare né morire. Io vengo da Auschwitz” (p. 85) “Io non prenderò mai un’arma in mano”… Preferisco aver avuto un padre martire che un padre assassino… Le guerre portano guerre. Io disarmerei tutto il mondo” (p. 88).

Dopo un matrimonio con un ragazzo violento, decide di fuggire da quell’uomo, dal servizio militare, “dalla delusione del mondo, incapace di ascoltare… Volevo fare di tutto e fino ad allora avevo fatto soltanto quello che potevo e non l’unica cosa che volevo: scrivere… un libro, un diario, ma non avevo preso più la matita in mano… da quando non scrivevo? (p. 97)

Reclutata in un piccolo corpo di ballo va ad Atene, Istanbul, Zurigo e finalmente approda a Napoli. “La città stessa, la gente, l’aria, il cielo, erano sorridenti… Per la prima volta mi trovavo bene subito, dopo il mio lungo e triste pellegrinaggio; ‘Ecco’, mi dicevo, ‘questo è il mio Paese'” (p. 106).

La lingua, l’italiano, le fa dire che “Ci vorrebbero parole nuove, anche per raccontare Auschwitz, una lingua nuova, una lingua che ferisce meno della mia, natia. La lingua di chi canta con la voce e le corde che piangono la ignoravo del tutto”. Dopo Napoli, Roma: "finalmente ripresi in mano il mio quadernetto, che avevo abbandonato, e ho iniziato a scrivere in italiano, così: Sono nata in un piccolo villaggio ungherese...” (p. 111).

E a Roma conosce l’uomo che sarà suo compagno di vita per sessant’anni: Nelo Risi. “ L’uomo mi chiese subito del mio libro, ma io ero ero immersa nel suo volto…bevevo la sua voce…il volto bello marcato e fragile da non perdere mai più di vista, un uomo che è penetrato all’istante nella mia anima, mi ha svuotato dell’energia , facendomi tremare le ginocchia” (p. 115).

Però Edith Bruck , che riconosce di aver ricevuto dall’Italia molto più del pane perduto , è oggi turbata per il nostro Paese e per l’Europa “dove soffia un vento inquinato da nuovi fascismi, razzismi, nazionalismi, antisemitismi, che io sento doppiamente; piante velenose che non sono mai state sradicate e buttano nuovi rami e foglie che il popolo imboccato mangia, ascoltando le voci grosse nel suo nome, affamato com’è di identità forte, urlata, e italianità pura, bianca; che tristezza, che pericolo” (p.117-118).

Il libro si conclude con la “Lettera a Dio”, a “Te che non leggerai mai i miei scarabocchi, non risponderai mai alle mie domande , ai miei pensieri di una vita”(p. 119).

A questo Dio ,a cui Edith ha pensato ogni sera, l’autrice rivolge le domande che da bambina faceva alla madre, ostinatamente credente, concludendo che Egli rappresenta il più grande mistero che esiste: o si crede ciecamente, o si dubita lucidamente o la domanda, come nel caso dell’autrice, rimane sospesa.

Eppure Edith, per la prima volta , osa chiedere qualcosa a Dio: “la memoria, che è il mio pane quotidiano…. non lasciarmi nel buio, ho ancora da illuminare qualche coscienza giovane nelle scuole”. Le domande più frequenti che le fanno i giovani sono: crede in Dio? Ed Edith arrossisce, come fosse nuda… Perdona il Male? Edith risponde che un ebreo può perdonare solo per se stesso ma no, lei non ne è capace perché “penso agli altri annientati che non perdonerebbero me”. E infine: odia i suoi aguzzini? “Solo alla terza ho una riposta certa: pietà sì, verso chiunque, odio mai, per cui sono salva, orfana, libera e per questo Ti ringrazio… Dio”.

E noi ringraziamo te, cara Edith!

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