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Meron Rapoport a Gariwo: "In Israele c'è una guerra civile senza armi"

intervista a cura di Riccardo Michelucci

“Lo Stato di Israele sta attraversando la fase più importante e cruciale della sua storia. Da mesi è in corso una guerra civile senza armi e le proteste contro il governo non si fermeranno, perché molti israeliani sono convinti che questa sia per loro l’ultima occasione, prima di ritrovarsi privati dei diritti più elementari”. Meron Rapoport, giornalista di grande esperienza originario di Tel Aviv, non lesina critiche nei confronti del governo di Benjamin Netanyahu e ritiene che il suo Paese si trovi ormai di fronte a un bivio: “da una parte abbiamo un esecutivo di estrema destra, che vuole instaurare un regime simile a quello di Putin o di Erdogan. Dall’altra c’è la maggioranza della popolazione, che forse sta finalmente cominciando a capire che la democrazia israeliana non ha funzionato. Israele non può essere considerato un paese democratico se continua a controllare e a opprimere milioni di palestinesi privi di diritti”. Dopo aver lavorato a lungo per i quotidiani Haaretz, Hadashot e Yedioth Ahronoth, Rapoport è stato uno dei fondatori del movimento A Land for All, che chiede la creazione di due Stati indipendenti, Israele e Palestina, con confini aperti, libertà di movimento e istituzioni comuni. Attualmente lavora per il sito d’informazione Sikha Mekomit: l’abbiamo incontrato a Tel Aviv, dove ci ha tracciato un quadro sconcertante dell’attuale situazione politica del suo Paese.

Sette mesi di proteste di piazza non sono bastate a fermare il governo. Si aspettava un braccio di ferro così lungo e dagli esiti tuttora così incerti?

Francamente no. Nessuno tra noi analisti si aspettava manifestazioni di piazza come quelle che si ripetono da gennaio. Credo che si tratti di un fenomeno sorprendente anche per il governo. Peraltro, queste proteste che finora si sono concentrate sulla riforma giudiziaria si sono a poco a poco trasformate in qualcos’altro e hanno cominciato a sfidare la filosofia della destra israeliana degli ultimi 30-40 anni, la stessa che ha messo in primo piano la religione nella vita politica del Paese, alimentando un nazionalismo anti-palestinese e anti-arabo che sta monopolizzando la vita pubblica di Israele.

Perché non vi aspettavate una simile mobilitazione?

Pensavamo che la società israeliana avesse ormai accettato questo status quo come qualcosa di ineluttabile e immodificabile, ma a quanto pare ci sbagliavamo. Stando ai sondaggi, circa due milioni di israeliani sono scesi in piazza dall’inizio di gennaio alla fine di luglio. È un fatto storico paragonabile alla caduta del comunismo nei paesi dell’ex blocco sovietico. Molta gente ha capito finalmente che la democrazia non significa soltanto andare a votare e aspettare i risultati delle urne.

Perché ritiene che la democrazia israeliana non abbia funzionato?

Perché un paese democratico non può privare milioni di persone dei diritti più elementari. Mi riferisco ovviamente ai palestinesi, ma non solo a quelli della West Bank e di Gaza perché c’è anche una minoranza di israeliani palestinesi, circa il venti percento della popolazione del Paese, che sono discriminati apertamente dalle leggi dello Stato, e in molte località non possono neanche acquistare immobili o terre.

Quali sono i rischi che vede all’orizzonte?

Finora le manifestazioni sono state perlopiù pacifiche, ma in piazza stanno aumentando gli scontri con feriti sia tra i manifestanti che tra le forze dell’ordine. Quella che è in corso è una guerra civile senza armi, ma ci sono decine di migliaia di giovani israeliani che sono pronti ad alzare il livello dello scontro fino ad arrivare alle estreme conseguenze, poiché sono convinti che questa per loro sia l’ultima battaglia prima di ritrovarsi privati dei diritti più elementari. Inoltre, poiché Israele è sempre stato un Paese molto compatto, con un forte consenso, come una società di immigrati, adesso il rischio è che al suo interno si crei una spaccatura profonda e insanabile.

Qual è l’impatto del cosiddetto “blocco anti-occupazione” all’interno della protesta?

All’inizio era soltanto un gruppo molto sparuto che sventolava qualche bandiera palestinese, in alcuni casi venivano cacciati dalle piazze, sono stati offesi e persino picchiati. Ma a poco a poco il consenso intorno a questi gruppi è cresciuto e il loro numero è andato crescendo. Il tema dell’occupazione non figura ufficialmente nell’agenda delle proteste ma il fatto che un’intera popolazione scenda in piazza non può non arrivare alla fine a capire che l’occupazione è parte del problema, dal momento che circa la metà della popolazione è stata privata dei diritti civili. In questo governo, che intende limitare i poteri della Corte Suprema e sottomettere il potere giudiziario a quello esecutivo, ci sono elementi apertamente razzisti, come il ministro della giustizia, Itamar Ben Gvir, e quello delle finanze, Bezalel Smotrich, il quale ha addirittura elaborato un piano dettagliato che offre tre opzioni ai palestinesi dei Territori occupati: essere governati da Israele senza diritti politici accettando di fatto lo stato di apartheid, andarsene via per sempre oppure essere sterminati con una guerra totale. Come si fa a non definire fascista un ministro del genere?

La società civile israeliana finirà per compattarsi ritenendo di essere minacciata da un nemico alle porte?

In passato a questa domanda avrei risposto di sì, senza alcuna esitazione. Adesso però non ne sono tanto sicuro, innanzitutto perché siamo di fronte a un fenomeno del tutto inedito, con migliaia di riservisti dell’esercito che si sono rifiutati di accettare le iniziative di un governo antidemocratico. Casi di “refusenik”, ovvero di soldati che si sono rifiutati di prestare servizio per motivi etici, ci sono stati anche in passato. Ma dal 1967 a oggi, in oltre mezzo secolo di occupazione, sono stati appena qualche centinaio, mentre adesso ne abbiamo avuti circa diecimila in pochi mesi. Ciò significa che si è creata una spaccatura profonda all’interno delle forze armate. E considero molto importante quanto è accaduto nei mesi scorsi, quando la stampa israeliana ha definito “pogrom” i raid dell’esercito nel villaggio palestinese di Huwara, a sud di Nablus. In ogni caso, la società civile israeliana ha dimostrato di essere molto forte e non credo che stavolta il governo riuscirà a compattarla dietro di sé.

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