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Zan, Zendegi, Azadi (Donna, Vita, Libertà)

di Antonella Maucioni

“Se potessi chiudere gli occhi
e lasciare che i sogni mi prendano per mano
mi alzerei e volerei in nuovi cieli
e dimenticherei i miei dolori
se potessi viaggiare nella mia immaginazione
crescerei e costruirei dei palazzi e delle notti
dove crescerebbero l'amore e le mie speranze e cancelleremmo le disgrazie”

Sono le parole struggenti di una vecchia canzone persiana che sembra riecheggiare il sogno delle donne iraniane che da mesi ormai, dal 16 settembre 2022, quotidianamente protestano contro il potere cieco e violento degli ayatollah.

Quel giorno a Teheran muore Mahsa Amini, una giovane donna curda di appena 22 anni, arrestata tre giorni prima dalla Gasht-e Ershad (la cosiddetta polizia “morale” iraniana, che regolarmente sottopone donne e ragazze ad arresti e detenzioni arbitrarie, torture e altri maltrattamenti) per non aver rispettato l’obbligo discriminatorio di indossare il velo. Le donne iraniane, infatti, da qualche tempo sfidano in modo creativo il velo obbligatorio spingendo indietro i loro foulard e indossando abiti colorati e Mahsa Amini è stata arrestata proprio per questo: il suo chador lasciava intravedere alcune ciocche di capelli. Secondo testimoni oculari, Mahsa viene picchiata violentemente mentre è trasferita con la forza nel centro di detenzione di Vozara e, dopo essere entrata in coma, alcune ore più tardi, viene ricoverata in ospedale dove muore tre giorni dopo. Un omicidio brutale e senza alcuna giustificazione, un femminicidio di stato, che è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso dopo quarant’anni di tensione. Il giorno dopo l'annuncio della morte di Mahsa, le proteste sono scoppiate nelle città di tutto il paese: la rivolta è esplosa per un evento specifico ma, in realtà, stava maturando da tempo in ogni strato sociale, e velocemente è dilagata incessante coinvolgendo sempre più persone. Donne di ogni età, etnia, provenienza e fede contestano il velo come simbolo di contenimento della libertà femminile. L’opinione pubblica, indignata inizialmente per il trattamento riservato alla famiglia della vittima e per il tentativo di liquidare la morte di Mahsa come dovuta a malattie preesistenti, si mobilita dietro lo slogan “Donna, vita, libertà” (Zan, Zendegi, Azadi), lo stesso grido che accompagna ormai da mesi le drammatiche proteste collettive in tutto il paese.

L’uccisione di Mahsa Amini ha innescato, infatti, la rivolta delle donne iraniane contro la più oscurantista delle teocrazie e per la prima volta nella storia dell’umanità un movimento nazionale per i diritti si genera dalle donne che si tolgono il velo dell’oppressione per reclamare i diritti di un popolo intero, trascinando con sé innumerevoli uomini in una coraggiosa dimostrazione di rabbia condivisa per la brutalità della polizia, l'ingiusto attacco alla giovane donna curda e il dominio autoritario del regime islamico. E gli uomini che partecipano a Zan, Zendegi, Azadi sanno bene che la lotta per i diritti delle donne è anche la lotta per la propria libertà: l'oppressione delle donne non è un caso speciale, è solo il momento in cui l'oppressione che permea l'intera società è più visibile.

Le forme di protesta collettiva in tutto il paese sono state, e continuano ad essere, drammatiche e hanno evocato una drammatica e brutale repressione da parte del regime iraniano che trema per il coraggio indomabile di queste donne scese in piazza chiedendo libertà, disposte perfino a farsi uccidere.

Ad oggi, a quattro mesi dall’inizio delle proteste, i numeri della la sanguinosa repressione sono drammatici: le manifestazioni si sono diffuse a macchia d’olio in tutto il paese coinvolgendo 161 città e tutte e 31 le province dell’Iran e finora sarebbero 520 i morti fra i manifestanti – di cui 70 bambini - mentre più di 19 mila sarebbero le persone arrestate. Parlare di numeri in una situazione di violazione dei diritti umani è sempre riduttivo ma in questo caso anche molto complesso: sono cifre approssimative perché dati ufficiali non ne esistono e la conta è affidata al lavoro delle ong per i diritti umani che operano in clandestinità in un contesto in cui l'accesso a internet è in gran parte limitato e altri canali di comunicazione sono stati soppressi. Secondo Hrana, l'agenzia di stampa iraniana per i diritti umani, finora si sono svolte più di 1.200 manifestazioni di protesta. Molte delle vittime sono giovanissime e soprattutto donne - come Nika Shakarami (17 anni), Hadis Najafi (20 anni), Hannaneh Kia (23 anni), Ghazaleh Chalavi (32 anni), Mahsa Moguyi (18 anni) per citarne solo alcune - i cui corpi straziati dai pallini sparati dalla polizia o dalle torture vengono riconosciute spesso a distanza di qualche tempo dalle proprie famiglie che sono minacciate, non possono parlare e devono seppellire i propri figli in silenzio mentre a molte di loro ancora non è concesso di conoscere il destino dei loro cari che erano scesi in piazza. A inizio dicembre, l’uso della forza da parte del governo si è intensificato fino a raggiungere il culmine, quando la magistratura ha annunciato di aver eseguito due condanne a morte di manifestanti: due ragazzi di 23 anni, Mohsen Shekari e Majidreza Rahnavard, sono stati impiccati a seguito di una condanna per “moharebeh” (inimicizia contro dio). Il 7 gennaio altri due manifestanti, sempre giovanissimi, sono andati incontro alla stessa sorte e nelle carceri, dopo confessioni estorte con la tortura e processi iniqui sommari, sono oggi recluse decine di persone, tra cui tre minorenni, che rischiano l’esecuzione capitale. Le autorità iraniane usano la pena di morte come mezzo di repressione politica per instillare la paura tra i manifestanti e mettere fine alle proteste.

Da quel 16 settembre, con incredibile crudezza, le immagini delle quotidiane manifestazioni e della violenta repressione entrano nelle nostre case. Queste ragazze, questi ragazzi chiedono solo libertà: è una domanda forte che non ci dà scampo e di fronte a cui oggi non possiamo dire che non sappiamo, così come un domani non potremo raccontarci, ancora una volta, che tutto questo ci colse di sorpresa. E allora come spiegare la timida mobilitazione della società civile, del mondo della cultura, dei giovani di fronte a questo scempio? L’interrogativo che la drammatica situazione iraniana pone alle nostre coscienze è sempre la stesso: “E tu da che parte stai?”. Una domanda ricorrente in tutti i tempi della storia in cui si fronteggiano l’odio e il bene, l’indifferenza e la solidarietà. Ci sono molte risposte razionali, politiche e sociali, per sostenere una posizione contro la brutalità della repressione ma la risposta delle nostre coscienze, e che ci porta dalla parte della condivisione, viene da un’altra via, quella dell’empatia, della passione, del desiderio di bene: questo è, infatti, ciò che sostiene la scelta di chi si assume una responsabilità verso gli altri nei contesti più diversi. È compito di ognuno di noi, di ogni individuo che ama la libertà, essere al fianco delle ragazze e dei ragazzi iraniani perché la battaglia per la libertà è universale, non è divisibile e si ottiene pienamente soltanto se ne godono anche gli altri. Non c’è libertà piena, se gli altri ne sono privi e questo deve spingerci a non chiudere gli occhi e a impegnarci sempre e ovunque perché essa venga ripristinata.

C’è bisogno insomma di una luce più grande del nostro piccolo interesse che ci guidi verso una scelta per gli altri e con gli altri e questo anche nelle nostre società appagate di libertà, in cui i ragazzi e le ragazze hanno quasi tutti i beni materiali a loro disposizione ma in cui non sempre riescono a individuare una strada per la realizzazione della pienezza umana, quella che ci permette di essere soddisfatti della nostra vita.

Purtroppo, la tentazione di rifuggire al richiamo del bene è sempre molto intensa, l’odio, infatti, è più forte e potente del bene, che è silenzioso e gentile, e sembra che ogni volta la storia ricominci da capo, senza riuscire a imparare nulla dal passato. È un sortilegio amaro che può colpire anche i giovani che, distratti da mondi artificiosi e tecnocratici, possono rischiare di perdere di vista il sogno di un mondo diverso, più giusto, solidale e libero, adagiandosi su comode consuetudini. Proprio in questo può venirci in aiuto l’educazione, intesa non come semplice trasmissione di nozioni, ma come spazio interiore in cui i giovani si interrogano sul proprio agire e poi su questo con altri dialogano, portando alla luce quel senso nascosto del bene che non solo fa fiorire la responsabilità ma può rendere una vita più felice e più autentica. A tutti noi spetta il compito di ascoltare il richiamo dell’altro, di partecipare alla grande storia del mondo sostenendo la vita, la libertà, la giustizia. Perché per tutti noi, per dirla con le parole del poeta Christian Bobin: “Verrà il giorno in cui una mano di luce busserà al legno del cuore, con una tale insistenza che non potrò far altro che alzarmi e aprire”.

Antonella Maucioni, Ambasciatrice di Gariwo

18 gennaio 2023

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