Yair Auron
Riportiamo di seguito l'articolo di Rosita Poloni, pubblicato il 18 agosto 2016 da L'Eco di Bergamo, sulla figura di Yair Auron - professore della Open University di Israele impegnato nella ricerca sulla prevenzione dei genocidi, che insieme a Gabriele Nissim ha inaugurato nel 2015 il Giardino dei Giusti di Neve Shalom - Wahat alSalam
Tutto sommato Parigi era un buona soluzione per Misha e Knar nel 1924, nonostante desiderassero in prima battuta la partenza per gli Stati Uniti. Provenienti dalla Georgia lui, dalla Turchia lei, arrivavano da Salonicco e avevano individuato nella capitale francese una possibilità di garantire alla propria esistenza un po’ di normalità. Avevano aperto un ristorante che godeva di discreto successo, dove si cantava, si mettevano in scena piccole pièces teatrali, aprendo le porte a numerosi esiliati provenienti dall’Europa Centrale. La loro unione era stata benedetta da due figli, Aida prima e poi Chahnourh (Charles); entrambi, fin da piccoli, si erano dedicati alla musica e al teatro in maniera giocosa e naturale. Non è chiaro come accadde, ma accadde nel 1940, all’inizio della guerra, che un giovane uomo ebreo si rivolse a Misha, chiedendo se fosse possibile aiutare il fratello, ricercato dai nazisti. E Misha non esitò ad accogliere prima lui e poi altri due ebrei che per differenti strade avevano cercato lo stesso aiuto. Misha e Knar decisero di nasconderli in casa propria.
La condivisione del pane
La condivisione del pane e dei materassi, un codice preciso per bussare alla porta, molta discrezione, così la famiglia Aznavourian condusse gli anni della guerra, diventando punto di riferimento non solo per i tre ebrei accolti, ma anche per diversi disertori armeni che avevano bisogno di sostegno nel loro percorso di abbandono dell’uniforme. Di questo il piccolo Charles non ha mai parlato per una forma di pudore ereditata dal padre, che non avrebbe gradito mettere in pubblico una scelta così privata. Non ha mai parlato fino a che non ha incontrato il professor Yair Auron, un uomo che ha dedicato al genocidio del proprio popolo e a quelli dei popoli altrui, tutta la sua vita accademica e gran parte delle sue energie da privato cittadino. Per una di quelle coincidenze della vita, è un gioco di corrispondenze che li avvicina: il padre di Charles, memore e vittima sopravvissuta del genocidio del popolo armeno, non poté far altro che accogliere tre ebrei in fuga dalla persecuzione; Yair, ebreo di origine polacca, ha sentito l’esigenza di approfondire la questione del genocidio armeno nel momento in cui ha realizzato l’indifferenza del proprio Stato, lo Stato di Israele, nei confronti di quel massacro.
Un pensiero condiviso
È semplice ascoltare Yair Auron, lo è perché racconta nella maniera consequenziale e logica di chi ha a lungo insegnato e prepara il suo pensiero alla condivisione, lo è perché non si concede scorciatoie, perché la sua onestà intellettuale gli impone coraggio anche quando tratta di argomenti che si percepisce essere per lui dolorosi, per esempio quando dice di Israele che è «una società malata, anche se non è facile dirlo, perché solo una società malata può controllare per cinquant’anni un altro popolo, malata dal punto di vista morale ed eccezionalmente forte dal punto di vista militare», una combinazione che definisce letale.
È semplice ascoltarlo perché si avverte nelle sue parole una passione intensa, che esprime la responsabilità di esercitare il proprio ruolo di cittadino in maniera integra, senza compromessi, anche quando questo significa fare causa al proprio Paese affinché sia fatta chiarezza e giustizia sulla vendita di armi da parte dello stato israeliano al Ruanda durante il genocidio dei tutsi. Infine è semplice ascoltare Yair Auron perché si sente chiamato in causa moralmente dalle storie che raccoglie, con il rigore dello studioso si muove, cerca, ascolta, compara, definisce; desidera dare voce, portare alla luce. Non stupisce quindi che Charles Aznavour lo abbia scelto per raccontare la storia della propria famiglia, che è diventata un libro presto edito in ebraico. Il professor Yair Auron ha attraversato differenti istituzioni del suo Paese, ha lavorato al Museo della Shoa «Yad Vashem», ha insegnato alla Open University, ora tiene corsi come visiting professor all’Università di Beer Sheva in Israele e a Yerevan, in Armenia.
Identità ebraica e Olocausto
Yair ha avviato il proprio percorso a partire dallo studio della relazione tra identità ebraica e Olocausto e poi, dagli anni Ottanta in poi, si è dedicato al genocidio armeno, essendo rimasto profondamente colpito dai processi di indifferenza e negazione di una tragedia che ha coinvolto un milione e mezzo di persone e, ancora oggi, stenta ad essere nominata.
Si dedica al tema del genocidio adottando la definizione delle Nazioni Unite, che nel 1948 ha approvato la Convenzione sulla prevenzione e la punizione del delitto di genocidio («gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso»), rendendolo un crimine di interesse e responsabilità internazionali. Una questione ostica, nonostante sia sancita da una risoluzione, una questione però rilevante perché declina l’intervento internazionale: Auron per esempio cita il Ruanda per descrivere un caso in cui la comunità internazionale ha fallito nell’attribuire la definizione di genocidio a quanto stava accadendo, anche se, sostiene, era evidente ben prima che accadesse; nella mancata denominazione si annida la mancata azione delle Nazioni Unite (in quel caso bloccate del veto statuni tense) e la conseguente, velocissima tragedia del Paese africano. Auron però ci tiene a precisare che il problema della definizione è relativo, poiché ritiene che l’indifferenza non si nutra di parole, ma di un atteggiamento più radicato e infido, che delle parole se ne frega; soprattutto oggi in quella che descrive come «realtà capitalista» ed individualista che non prevede la possibilità di interessarsi, di uscire dallo schermo del proprio telefonino, di favorire un ingaggio su qualcosa che non sia prossimo nel tempo e nello spazio, che non sia, possibilmente, piacevole. Questo combatte il professor Auron, citando più volte, nel corso dell’incontro, l’espressione «dovere morale»: del non potersi adagiare nell’accettazione dello status quo, del doversi battere, al contrario, affinché sia condiviso il bisogno di riconoscere, di nominare, di fare memoria. La ricerca dei giusti si inserisce in questo tratto della sua sensibilità e del suo impegno: «Non c’è nulla di peggio di una storia non detta, di una storia ignorata» soprattutto se racconta dell’umanità più bella e autentica. Per questo è necessario cercare e dire le vicende dei giusti, persone che, nel tempo, hanno offerto riparo e protezione a chi era in pericolo e ad essi dedica i suoi due ultimi progetti: un Giardino dei giusti aperto a Neve Shalom - Wahat alSalam insieme a Gariwo per offrire loro un luogo di riconoscimento e memoria e il suo ultimo libro «La banalità della compassione» dedicato ad una comunità di circassi che durante l’assedio di Leningrado salvarono 32 bambini ebrei.
Entrare nelle pieghe della storia, cercare di salvaguardare l’umanità, onorare le vite di quanti nel tempo hanno saputo esporsi in prima persona per salvare chi, dagli olocausti, stava fuggendo: ieri gli Aznavourian - Aznavour, domani i circassi e così via, finché c’è voce.