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“Abbiamo lasciato l’Afghanistan in mano ai talebani, rischiamo un nuovo genocidio”

Il giornalista Basir Ahang racconta cosa succede alle minoranze dopo l’addio degli USA

Mentre le forze statunitensi completano il ritiro dall’Afghanistan, si stima che nelle ultime due settimane l’emirato islamico dei talebani abbia catturato più di mille unità di veicoli corazzati dell’esercito americano. Una dimostrazione di forza che evidenzia ancora di più, semmai ce ne fosse bisogno, lo stato di euforia che accompagna le campagne militari dei talebani in questo momento. Intanto il governo di Ashraf Ghani continua a perdere di autorevolezza agli occhi dei cittadini e dei militari (in migliaia hanno recentemente abbandonato il paese verso Pakistan, Uzbekistan e soprattutto Tajikistan) e si teme per il destino della popolazione civile. Ad oggi più di un quarto dei 421 distretti in cui è diviso il territorio dell’Afghanistan è sotto il controllo diretto dei talebani. Per capire la situazione e cosa rischiano hazara, uzbeki, tajiki, beluci, nuristani e tutte le altre minoranze del Paese, abbiamo contattato Basir Ahang, giornalista e scrittore che ha lavorato a lungo per l'UNHCR e pubblicato articoli su alcune delle principali testate internazionali. 

Basir, cosa sta succedendo?

Stiamo andando verso un’altra guerra, ma questa volta non sarà come quelle di prima. I talebani sono più aggressivi. In questi giorni vedo che sono molto attivi anche sui social media, con messaggi di odio verso le minoranze e in particolare gli hazara. Ci dicono che ora che gli americani sono andati via dovremo rispondere del nostro “tradimento”. Purtroppo questo linguaggio non appartiene solo ai talebani locali ma anche a persone che hanno studiato e vivono all’estero.

Leggiamo notizie di veri e propri assedi, che rimandano a tristi vicende del passato. In che modo i talebani si stanno appropriando di intere regioni del Paese?

In questo momento alcune delle zone dove vivono gli hazara, come Mazar-i-Sharif, Daykundi e Ghazni sono circondate dai talebani da più di tre mesi. In un distretto di Mazar-i-Sharif, Charkint, i talebani ha bloccato le strade con le mine e tante persone sono bloccate senza più niente da mangiare. Un giornalista di Foreign Policy ha testimoniato l’emergenza della popolazione: gli abitanti, poverissimi, hanno venduto animali e il poco che avevano per comprare armi e difendere la città.

Come si sta comportando il governo per difendere queste città?

Il governo centrale non ha dato supporto alle comunità locali. Nelle zone abitate dagli hazara non ci sono basi militari e da Kabul non arrivano soldati. Questa strategia dell’assedio per lasciar morire di fame era stato usato dai talebani anche in passato. Ad esempio a Ghazni, dove vivevo io, i talebani bloccarono le strade per quattro anni. Un sacco di farina costava cinque milioni e mezzo di afghani, la valuta locale. Nessuno poteva permetterselo.

E oggi usano la stessa strategia?

Sì. A Charkint il World Food Program è riuscito da accedere una sola volta in tre mesi, potendo dare del cibo solo a metà della popolazione perché le mine rendono impossibili i passaggi. Pensa, quando uccidono qualcuno mettono le bombe anche dentro ai cadaveri così da confondere i passanti. Fanno delle cose terribili. A Daykundi è da mesi così. Nel distretto di Pato hanno bruciato e distrutto tutte le case.

Torniamo al governo. Possibile che rimane inerme?

Il governo non fa niente. La strategia di Ghani è quantomeno strana. Quando negli ultimi mesi i talebani hanno preso controllo di più di cento distretti, il governo non ha sostenuto per niente le forze locali. Da quando Ghani è al potere abbiamo perso 70 mila soldati.

Come vanno interpretati questi numeri?

In tutti questi anni nelle prigioni c’erano quasi unicamente persone riconducibili alla maggioranza pashtun. In ottica di una discutibile idea di giustizia sociale, Ghani ha deciso di rallentare le strategie di difesa dell’esercito verso i talebani. Ha creato un micro management che ha l’obbligo di controllare come e quando l’esercito risponde ai talebani. Durante un attacco, i capi militari devono contattare il ministero della difesa che a sua volta deve chiedere l’autorizzazione a difendersi alla presidenza. Senza la firma di Ghani i militari non possono difendersi. E’ assurdo. Mi viene da pensare che per Ghani la supremazia pashtun, da sempre al controllo del paese, sia più importante rispetto alla difesa dai talebani, che a loro volta sono pashtun.

E quindi gli abitanti delle aree più remote sono lasciati a loro stessi.

In questa situazione la condizione degli hazara è quella più fragile: non hanno armi, non hanno niente. Storicamente siamo stati i primi a deporre le armi, a esultare per la democrazia. Abbiamo studiato, costruito le scuole e rinunciato alla lotta armata. Da una parte questo è buono perché quasi tutte le università private sono state fondate da hazara. Ma ora che c’è la guerra, ed è una questione di sopravvivenza, noi non abbiamo mezzi per difendere le nostre famiglie. Nella mia provincia, Ghazni, solo tre distretti sono sotto controllo governativo. Gli altri sono tutti sotto i talebani. Ma il peggio deve ancora venire. Ora i talebani sono concentrati a stabilizzare il loro operato sul territorio. Poi inizierà, temo, il vero massacro. Prenderanno il potere e faranno i conti con tutti gli altri.

La presa del potere è solo una questione di tempo?

Per ora Ghani non lascia il governo, ma credo che lui sia parte del problema. L’anno scorso a Behsud si era costituito un gruppo locale di difesa contro i talebani, ma l’esercito ha preferito combattere gli hazara, nonostante questi stessero combattendo sotto la bandiera afghana. Ripeto, Ghani sembra principalmente preoccupato dal fatto che tajiki, hazara e uzbeki minaccino il dominio pashtun. C’è un caso recente molto emblematico.

Quale?

Due settimane fa c’è stato un ampissimo dispiegamento di talebani da sud verso nord. La polizia di Kabul aveva arrestato una carovana di bus che trasportavano migliaia di persone. A detta loro andavano a nord per lavorare. Figurarsi se nel nord dell’Afghanistan ci sia lavoro per quelle migliaia di persone! Andavano in guerra. Sono stati trattenuti due giorni. Poi è arrivato l’ordine dal governo per lasciarli andare.

Gli Stati Uniti si ritirano dal Paese. Che ne pensi di Biden?

Credo che non sia mai stato davvero interessato all’Afghanistan, anche quando lavorava per Obama. Pensava che tutto questo sforzo fosse inutile. D’altro canto c’era e c’è l’interesse nazionale rispetto alle altre potenze, Cina, Russia e Iran. Gli Stati Uniti vogliono essere presenti ma non spendere troppo per esserlo. Ora hanno deciso che difendere un governo di unità nazionale e investire nella democrazia sia troppo costoso. Invece di mandare due miliardi annui al governo locale, è più economico trovare un accordo con i talebani per evitare grossi danni. Mi spiace dirlo, ma oggi mi sembra che la promessa della democrazia fosse propaganda per avere accesso al territorio.

Hai citato la Cina. C’è un gran lavoro per costruire la nuova via della seta che includa l’Afghanistan.

Dipende tutto dai talebani. C’è da capire se e da chi si faranno controllare. Per la Cina sono una minaccia. Non conoscono nessuna legge, patto, dialogo, rispetto di accordi.

Esistono figure positive che stanno emergendo in questo caos?

Sarò sincero. Non credo che i leader dei partiti tradizionali hazara, uzbeki e di altri gruppi etnici saranno in grado di contrastare i talebani. Sono anziani e hanno vie di fuga sicura in caso di pericolo. E c’è un altro problema. Molti giovani, anche tra i tajiki e gli uzbeki, stanno subendo una fascinazione incredibile da parte dell’estremismo islamico. Ecco perché dico che non possiamo contrastare i talebani attraverso le identità etniche: oggi i giovani sono più interessati all’ideologia fondamentalista che all’etnia. L’etnia non può essere la risposta.

Hai tanti dialoghi con intellettuali della diaspora per capire il futuro del Paese. Cosa emerge?

Recentemente abbiamo avuto un incontro su ClubHouse. Secondo molti giovani tajiki, hazara e uzbeki non c’è altra soluzione se non una scissione tra chi vuole vivere democraticamente e coloro che accettano i dettami della sharìa. La convivenza non è possibile, per loro. Vogliono un nuovo paese: non è accettabile che nel Ventunesimo secolo a governare l’Afghanistan siano terroristi presi per leader spirituali. Non capiscono come persone con dottorati ottenuti nelle migliori università del mondo debbano vivere sotto il controllo di gente che non ha mai aperto un libro in vita propria.

Avete provato a intraprendere dei dialoghi con gli intellettuali pashtun?

Ci abbiamo provato tantissimo in questi ultimi mesi, senza grandi risultati. Per alcuni di loro, uno addirittura aveva un master a Cambridge, i talebani sono freedom fighter. Temono la presa del potere da parte dell’Alleanza del nord e criticano le loro violazioni dei diritti umani e il fatto che possano minare alla sicurezza nazionale. Eppure sorvolano sulle violazioni dei talebani. Che per altro hanno rapporti con tutti i servizi segreti del mondo. Purtroppo senza dialogo non c’è pace. Non abbiamo un linguaggio comune: noi parliamo di diritti delle donne, di democrazia, del lavorare insieme affinché chiunque, a prescindere da etnia e genere, possa provare a diventare presidente. Perché non possiamo avere un presidente sikh, indu, baluci, nuristano… donna?

C’è stato un momento, in questi venti anni dalla caduta del regime talebano, in cui hai avuto la sensazione che le cose sarebbero potute cambiare veramente in Afghanistan?

Sì. Tra il 2002 e il 2006 ho nutrito la speranza che si formasse un paese democratico e che saremmo diventati finalmente liberi, con la possibilità di crescere collettivamente. Si iniziava anche ad avere esponenti delle minoranze in ruoli di potere. Qualcosa è cambiato a fine 2005, quando alcuni intellettuali pashtun hanno iniziato a dire che il potere non poteva essere diviso.

Poi sono arrivati i dialoghi di pace con i talebani.

Si è diffusa l’idea che era stato un errore non coinvolgere i talebani alla conferenza di Bonn (sotto l’egida delle Nazioni unite di Kofi Annan, nel novembre 2001 i capi politici storici afghani si riunirono a Bonn per discutere del paese durante la transizione post-talebana, ndr). Si diceva che i talebani dovessero rientrare per ragionare insieme. Si è creato un network internazionale molto forte, anche in Italia, che vedeva nei talebani quasi dei rivoluzionari. Mi ricordo di quei giornalisti che scrivevano benevolmente biografie del Mullah Omar. A me tutto questo faceva stare molto male.

Come si è arrivati a questo processo?

Il progetto prevedeva il reintegro dei talebani nella vita sociale afghana. Ogni membro talebano che decideva di farne parte riceveva 2500 dollari, uno stipendio e una tessera che fungeva da lasciapassare da una regione all’altra del Paese. Potevano muoversi in libertà, senza rischio di essere controllati. Avevano una impunità quasi totale. Concretamente questo è stato un invito a riorganizzare le forze e spostare gli armamenti. Gruppi di nazionalisti pashtun legati al governo trasportavano con gli elicotteri dell’esercito gruppi di talebani verso nord. Spostando di fatto la guerra verso un nuovo fronte. I sentimenti di speranza sono durati poco. Non do tutta la colpa al governo di Karzai, ma non posso dimenticare gli stranieri occidentali, spesso di sinistra, che pensavano che aiutare i talebani andasse contro il capitalismo. Lo dicevano senza capire bene di cosa stessero parlando. Del resto, se i talebani prendessero il potere queste persone non potrebbero entrare in Afghanistan, verrebbero impiccate perché infedeli.

Che cosa pensi della copertura mediatica che riceve oggi l’Afghanistan?

Va detto che le minoranze, in particolare noi hazara, abbiamo ricevuto una discriminazione storica che non è stata quasi mai trattata. Parlando della situazione contemporanea, continuo a vedere una fascinazione verso i talebani. Per me questo è incredibile. Sento dire che talebani non sono quelli degli anni Novanta. C’è una sorta di nuova identità che ha pulito i loro crimini.

Mi viene in mente che durante i momenti più cruenti dell’attività dei gruppi terroristici che si dichiaravano facenti parte dell’Isis, i talebani venivano visti quasi degli alleati contro il male estremo.

Il punto è che l’Isis in Afghanistan non esiste. Coloro che a nord combattevano con l’Isis adesso sono capi dei talebani che guidano la guerra. Ma oggi non sono più terroristi bensì eroi che combattono per liberare.

Contesti chi dice che i talebani di oggi non sono quelli degli anni Novanta. Del resto, mi viene da pensare che molte delle persone che combattono oggi negli anni Novanta non erano ancora nate, o per lo meno erano bambini. Come sono i talebani di oggi?

Sono imprevedibili. Hanno così tanta rabbia verso gli altri che se possono ti fanno a pezzi. Prima, negli anni Novanta, facevano le cose in maniera più programmatica.

Ci puoi fare un esempio?

Poco tempo fa, in alcune province hanno distrutto le città facendo esplodere i palazzi. Hai presente quei video che girano su internet in cui, attraverso ordigni messi nei punti giusti, si fanno esplodere vecchi edifici delle città occidentali ormai in disuso? Ecco, hanno imparato a fare lo stesso. Lo fanno però con i palazzi nuovi costruiti con i soldi della cooperazione. Li distruggono perché sono un simbolo dei nemici. Così distruggeranno tutto l’Afghanistan! La rabbia non fa capire loro che questi edifici potrebbero utilizzarli anche loro. Quando negli anni ’90 presero Kabul al massimo cucinavano dentro i palazzi presidenziali, ora vogliono distruggerli in quanto simboli occidentali. Questo è quello che fanno ai palazzi. Ora pensa alle persone. Tagiki, uzbeki e hazara sono visti come traditori da uccidere. Durante un dibattito su ClubHouse ho detto che il popolo afghano è stanco, non vuole i talebani. Un loro sostenitore, che vive in occidente, mi ha detto che la sharìa verrà imposta con la forza, dobbiamo rassegnarci al nostro destino.

Cosa possiamo fare in Occidente?

Intanto informarvi e diffondere. Hanno massacrato i bambini, anche quando erano nelle pance della madri negli ospedali pediatrici. Con gli attacchi kamikaze hanno ucciso migliaia di persone che non avevano a che fare niente con l’Occidente. Dobbiamo dirlo con forza: sono un gruppo terroristico e una minaccia per tutta l’umanità. Dobbiamo creare una catena umana mondiale per parlare di quello che succede. Quando i talebani prenderanno il potere potrebbe verificarsi un nuovo genocidio, proprio come quello degli yazidi in Iraq ad opera dell’Isis. Iniziamo un dialogo mondiale su quello che sta succedendo. Oggi abbiamo dimenticato l’Afghanistan. Se non iniziamo ora, sarà troppo tardi per salvare almeno un po’ di civili.

Joshua Evangelista, Responsabile comunicazione Gariwo

8 luglio 2021

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