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26 anni dal genocidio di Srebrenica

il ricordo e la ricerca della verità

L'11 luglio 1995 le truppe del generale Mladic entrarono nella cittadina di Srebrenica e uccisero 8372 uomini e ragazzi musulmani, gettandoli poi in fosse comuni. Il tutto avvenne nonostante la presenza sul territorio di un contingente di caschi blu ONU olandesi. L’8 giugno 2021, ventisei anni dopo, Ratko Mladic ha ascoltato presso un tribunale delle Nazioni Unite all'Aja la sentenza di appello che ha confermato l'ergastolo imputatogli nel 2017 dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia. La condanna definitiva di Mladic ha riportato alla memoria comune gli orrori di un genocidio il cui racconto è quasi insopportabile da ascoltare, migliaia di persone scovate, uccise e seppellite in pochi giorni. Ancora molti sono coloro che non hanno un luogo dove visitare i propri cari assassinati, le fosse comuni finora ritrovate legate al genocidio di Srebrenica sono 94. Ad ascoltare la sentenza c’erano anche le Madri di Srebrenica, riunite al Srebrenica Memorial Center, che, dalla creazione dell’Associazione nel ’96, hanno lottato perché ci fosse verità e giustizia per la morte dei loro figli e che ora purtroppo sono sempre meno…

In questo clima, la giornalista del Guardian Kim Willsher ha voluto ricordare una donna che divenne simbolo di tutto quel male, Ferida Osmanovic, The Hanging Woman (la ragazza impiccata). Willsher fu colei che, insieme al fotografo Lynn Hilton, nell’aprile del 1996 si recò in Bosnia per dare un nome a quella donna ritratta nello scioccante scatto che apparve sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. La corrispondete e il fotografo ci misero molti mesi a scoprire che la ragazza era Ferida, madre di due figli e moglie di uno degli uomini musulmani uccisi a Srebrenica. Proprio lì, gli Osmanovic pensarono che avrebbero trovato un rifugio sicuro, come era stato dichiarato grazie alla presenza dell’ONU. Inutile dire che non fu così. Il marito Selman Osmanovic, 37 anni, era un ottimista, aveva fiducia “nell’Occidente” che lo avrebbe salvato, e anche quando le cose iniziarono a peggiorare decise che non si sarebbe nascosto nei boschi. Ferida, 31 anni, non sopravvisse al dolore di averlo perso, alla crudeltà di ciò che aveva visto, e si tolse la vita lasciando i figli Fatima e Damir, che oggi, si racconta, vivono ancora in Bosnia.

I due ragazzi parlarono con Willsher, le raccontarono della madre e di come quella mattina li salutò sapendo che non sarebbe tornata. Fatima disse “Sappiamo che nostra madre si è impiccata. Siamo andati alla sua tomba, ma non aveva nome, solo "Impiccata" sulla lapide di legno. Quindi abbiamo scritto noi il suo nome con un pennarello.”

“Quando Mladić ha perso il suo appello”, ha dichiarato Willsher, “ho ritwittato questa storia, che fu pubblicata sul Mail la domenica 14 aprile 1996. La risposta delle persone della comunità bosniaca in patria e nella diaspora mi ha fatto capire che molti di loro sentono che ciò che hanno sofferto è stato dimenticato.” Irena Korik, per esempio, ha scritto: “Significa molto sapere che le persone pensano ancora a noi. Ero la figlia di un matrimonio misto tra una ‘serbo bosniaca’ e un ‘musulmano bosniaco’: metto questi termini tra virgolette perché prima della guerra non avevano senso. Mladić ha creato tanto male, ma alla fine ha perso e finirà la sua vita in carcere. È una sorta di giustizia, ma non riporterà indietro le migliaia di anime perdute. La gente non si rende conto di quanto sia stato orribile; non ha mai visto un bambino morire colpito alla testa da un cecchino mentre va a scuola.”

Le conseguenze di quelle atrocità sono ancora vive nei sopravvissuti, nelle madri che piangono i loro figli, nella memoria che deve essere un monito per il futuro, in una forma di giustizia che a volte non è arrivata o è arrivata tardi. Lo dimostra anche il fatto che solo ora i Paesi Bassi hanno avviato il processo di risarcimento per le famiglie delle vittime di Srebrenica. Nel 2019, la Corte suprema olandese ha infatti stabilito che i Paesi Bassi furono responsabili, in misura molto limitata, della morte di circa 350 vittime prelevate dalla base del battaglione olandese delle Nazioni Unite a Potocari il 13 luglio dopo aver cercato rifugio lì. La Corte ha dichiarato che il battaglione olandese agì illegalmente in quanto a conoscenza del fatto che gli uomini di Srebrenica erano in serio pericolo di essere uccisi. La sentenza ha stimato che, se fossero stati autorizzati a rimanere alla base, le loro possibilità di sopravvivenza sarebbero state del dieci per cento. Di conseguenza, il risarcimento previsto per i parenti più stretti di queste vittime equivarrà al dieci per cento del danno che hanno subito.

Le Madri di Srebrenica, in particolare nella persona della loro presidente Munira Subasic, hanno manifestato il proprio dissenso rispetto a questa decisione, non tanto per quello che riguarda l’ammontare del risarcimento (che sperano venga riportato al 30% come la Corte d'Appello dell'Aia aveva precedentemente stabilito) ma perché non la ritengono un’adeguata assunzione di responsabilità, che “suona più come un dovere giudiziario che come una forma di compassione”. “Non mi interessa l’importo”, ha detto la Madre Mirsada Malagic, “La cosa principale è che il governo olandese ammetta di essere responsabile di quello che è successo a mio figlio.”

In questo 11 luglio, Giornata in memoria delle vittime di Srebrenica, ricorderemo quello che accadde con la consapevolezza che tanto dolore poteva essere fermato e, soprattutto, prevenuto. Ripercorrere quegli accadimenti ci aiuta a comprendere i segni del male sul loro nascere e a evitare future atrocità, future "madri di Srebrenica".

Helena Savoldelli, Responsabile del coordinamento Redazione

8 luglio 2021

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