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Il genocidio

di Marcello Flores Il Mulino, 2021

Poche parole hanno capacità evocative nella società di massa contemporanea come “genocidio”. E se al netto di una sparuta minoranza di negazionisti c’è unanimità nell’identificare come genocidio la Shoah, la questione diventa più fumosa per gli altri crimini di massa compiuti durante il Novecento e nel corso del nuovo millennio. Le controversie non si fermano qui: c’è un limite storico oltre il quale non è più possibile usare il termine genocidio? I riferimenti biblici allo sterminio dei cananei da parte degli israeliti rimandano a un genocidio ante litteram?

Sono alcuni dei tanti interrogativi ai quali il nuovo libro di Flores tenta di rispondere partendo proprio dalla genesi del termine e dalla storia appassionante del suo coniatore, il giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, ossessionato dall’urgenza di dare un nome a quei delitti commessi nei confronti di gruppi che in maniera troppo confusa venivano definiti “barbarie”. Una definizione precisa, secondo Lemkin, avrebbe permesso di portare a giudizio coloro che avevano commesso atrocità di massa (come non era successo, ad esempio, per tedeschi e ottomani dopo la prima guerra mondiale).

Flores ripercorre gli eventi tragici che hanno scandito la vita di Lemkin e che hanno influito sul suo lavoro, riconoscendo l’abilità nell’offrire un neologismo semplice e al contempo potente, universale, non confondibile (sulla storia di Lemkin rimandiamo a un altro interessante volume, 1947 di Elisabeth Åsbrink, anche esso recensito su queste pagine).

Il lettore de Il genocidio scopre quindi il processo diplomatico che ha portato, nel dopoguerra, alla nascita della risoluzione 96 dell’Assemblea delle Nazioni unite che ha introdotto il crimine di genocidio (1946), propedeutica alla Convenzione per la condanna e la prevenzione del crimine di genocidio (1948).

Da un lato Lemkin tenne conto della complessità delle relazioni internazionali dell’epoca e dall’altro cercò di orientare il discorso al futuro e alla prevenzione. Per questo mantenne un profilo astratto ed evitò riferimenti diretti all’Olocausto che si era da poco consumato in Europa. Ma la strada per avere un documento fu decisamente impervia.

È infatti interessante scoprire i punti di vista dei vari stati membri del comitato costituito per arrivare alla Convenzione: se per la Gran Bretagna la convenzione è “una grande perdita di tempo”, Unione Sovietica e Stati Uniti discutono, per ovvi motivi, sull’opportunità di inserire i gruppi politici tra quelli ascrivibili come subenti di crimine di genocidio. Un altro punto di discussione è sul genocidio culturale, forse “la parte più importante” della bozza preparata da Lemkin. Ma con grande delusione del giurista ebreo polacco la maggioranza del comitato ritenne non necessario inserirlo nel testo, con una netta contrapposizione tra i paesi arabi e del blocco sovietico e quelli occidentali, preoccupati che si potessero creare le condizioni per essere accusati di genocidio culturale a causa del colonialismo.

Come conciliare il paradigma storico e il modello astratto, poi trasformato in una Convenzione che, come tutti gli accordi internazionali, è inevitabilmente frutto di un compromesso? Se è impossibile rispondere in maniera univoca a questa domanda, è assolutamente utile analizzare i vari percorsi collettivi che si sono seguiti nel corso degli anni per far sì che la Convenzione non rimanesse lettera morta. Su tutti il Tribunale Russell fondato nel 1966 in piena guerra del Vietnam, che ebbe sì una risonanza più politica che giuridica ma che fu al contempo fondamentale per far emergere grandi tragedie contemporanee (dall’Argentina all’Eritrea, da Timor Est al Guatemala). Il tribunale che porta il nome del filosofo britannico diede inoltre nuova linfa al dibattito internazionale sul genocidio degli armeni. Quest’ultimo verra preso in considerazione dal mondo accademico con un approccio metodologico organico solo a cavallo degli anni Novanta e primi Duemila con lo sviluppo dei Genocides Studies, che tentano di definire e approfondire i genocidi avvenuti prima e dopo della Shoah, quindi comparando tra loro anche i crimini avvenuti precedentemente all’invenzione del termine stesso.

Del resto negli anni ’90 i fatti di Srebrenica e del Ruanda, ampiamente raccontati da Flores, hanno avuto un impatto molto forte sull’immaginario collettivo: il genocidio è diventato attualità, visibile in televisione nei notiziari, quasi tangibile attraverso il racconto in diretta dei giornalisti. Allo stesso momento ha fatto emergere tutte le contraddizioni delle strutture internazionali nella prevenzione dei genocidi. Come scriveva amaramente Romeo Dallaire, citato da Flores, le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu durante il genocidio ruandese erano redatte in “puro-UNese: avendo considerato… esprimere rammarico… molto preoccupato… etc”.

Flores ripercorre quindi la storia dello Statuto di Roma e della Corte penale dell’Aia, con i propri limiti di competenze. Se 32 paesi non hanno ratificato il trattato (tra questi Israele, Russia, Stati Uniti), ben tre membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU (Russia, Cina e Usa) non hanno aderito alla Corte penale internazionale.

Insomma, il cammino per una accettazione condivisa del crimine di genocidio, per le sue applicazioni e, soprattutto, per per una prevenzione universale ancora oggi rimane impervio. Del resto la prima condanna per genocidio si è avuta solo nel 1998, nel processo ad Akayesu a opera del Tribunale penale internazionale del Ruanda.

E se gli studiosi delle varie discipline sociali non sempre riescono a trovare convergenze sulla classificazione delle atrocità di massa, questa difficoltà è ancora più evidente nel dibattito pubblico, troppo spesso orientato solo dall’emotività visiva della violenza e dalla empatia con i testimoni.

A rendere ancora più complicata un’analisi equilibrata ci sono i vari livelli di negazionismo, la questione del colonialismo (si può definire “genocidio” tutto il processo plurisecolare del colonialismo europeo nelle Americhe o in Africa?) e quindi il concetto fondamentale di intenzionalità, che ha portato alcuni studiosi a coniare l’espressione “genocidio non intenzionale”. Questioni aperte, intensificate dal dibattito sulla unicità della Shoah e dalla proposta comparativa dei già citati Genocides Studies rispetto agli Holocaust Studies. La sfida è analizzare le analogie tra i genocidi senza cadere nella trappola dell’appiattimento delle differenze.

Nonostante la difficile interazione tra storici e giuristi (emersa nella sua pienezza a proposito del genocidio in Cambogia e del relativo tribunale) è necessario lavorare congiuntamente per la prevenzione.

Come ha scritto nella prefazione Adama Dieng, ex consigliere speciale per la Prevenzione del genocidio del segretario generale ONU, “l’approccio di storia comparata, come quello usato da Flores, ha un ruolo essenziale nell’implementazione della convenzione, sia del suo aspetto punitivo sia di quello preventivo”. E ancora: “Perché aspettare che casi di violenza rientrino perfettamente nella definizione della convenzione se si vuole agire con scopo preventivo?”

Questo è quello che ci insegna la storia, basterebbe leggere la cronologia inserita in appendice dall’autore di dieci genocidi dal Novecento a oggi: herero e nama (1904-05), armeni (1915-16), Holomodor (1932-33), Cambogia (1975-79), Guatemala (1981-83), curdi in Iraq (1988), Ruanda (1994), Srebrenica (1995) e yazidi in Iraq (2014-19).

Anche da una comparazione distratta emerge in maniera insindacabile che la prevenzione è un processo che riguarda tutti, parte dal contrasto all’hate speech e prosegue con un’attenta attività di monitoriaggio e advocacy. Lo hanno spiegato Dieng e Alice Wairimu Nderitu (che lo ha succeduto alle Nazioni Unite). E lo ha ribadito la Fondazione Gariwo nell’audizione parlamentare del 27 gennaio 2021.

Concludiamo queste brevi considerazioni su Il genocidio, ricordando il giurista internazionale Antonio Cassese a cui è dedicato il volume. Cassese, che propose un giudizio differenziato per le cinque azioni "genocidiarie" incluse nella Convenzione, era all’Aia mentre avveniva il massacro di Srebrenica. Come scrisse ne L’esperienza del male (2001), “c’era da piangere ad apprendere dai media, dalla Cnn […] che era in atto un genocidio e noi non potevamo far nulla, eravamo impotenti come giudici. Speravamo solo di potere, un giorno, giudicare i colpevoli”.

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