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Un baratro fra i popoli: quale dialogo fra ucraini e russi?

di Andrea Braschayko

«Volevo congratularmi con voi già lo scorso ottobre, ma è stata un’impresa fin troppo ardua riuscire a mettersi in contatto con un uomo premiato del Nobel per la pace». Con un’evidente dose di ironia il conduttore russo Evgenij Kiselyov, da non confondere con l’omonimo propagandista della televisione statale del Cremlino, dà il benvenuto al suo ospite collegato da Mosca. È Dmitri Muratov, il capo redattore del quotidiano indipendente russo Novaja Gazeta.

La discussione risale all’estate del 2022, quando la Russia ha già invaso l’Ucraina. È trasmessa sul canale informativo russofono Freedom UA, pensato nel 2015 dalle autorità ucraine per far luce sui crimini commessi da Mosca sin dal 2014, e decostruirne la propaganda. Il pubblico di riferimento sono i cittadini russi aperti a sentire una voce esterna rispetto a quella del Cremlino, e soprattutto quelli ucraini rimasti intrappolati nei territori occupati in Donbas e Crimea, e dal 2022 in quelli di Kherson e Zaporizhzhya.

Kiselyov, il conduttore, ha lasciato Mosca e si è trasferito a Kyiv già nel 2008, convinto fosse l’unica soluzione per continuare ad essere un giornalista indipendente e affidabile. La stretta autoritaria del regime di Putin era evidente già allora, mentre la Russia si apprestava a invadere la Georgia in un’operazione di pochi giorni. Lo stesso piano pensato per Kyiv il 24 febbraio 2022.

«Tu invece dove di trovi, in questo momento, Dimitri?» rincara la dose polemica Kiselyov. «Sono a Mosca», risponde laconico il giornalista russo, consapevole di quale sarà il primo argomento del loro dibattito: come è possibile continuare a lavorare nelle condizioni di un regime totalitario?

Quasi in nessun modo, sembrerebbe, poiché la redazione ha scelto di sospendere le pubblicazioni il 28 marzo 2022, in seguito a diversi richiami del Roskomnadzor. Il 5 settembre – qualche mese dopo la conversazione fra Muratov e Kiselyov – le autorità russe revocheranno la licenza al giornale, per poi, il 17 novembre, limitarne l’accesso online.

Il dialogo prosegue, mentre diviene educato scontro, e si evolve lento e tragico. Ogni parola viene ricalcata, nelle pause gli occhi di entrambi guardano nel vuoto, nell’abisso comunicativo che si sta inesorabilmente aprendo fra i due popoli. E in realtà non sarebbero nemmeno divisi dall’appartenenza nazionale, in teoria: Kiselyov e Muratov sono entrambi russi, e si conoscano personalmente da oltre venticinque anni.

Nonostante queste premesse, il loro primo tentativo di darsi del tu fallisce, e si passa subito alla forma del voi (usato in russo in luogo di lei). Al reciproco rispetto si affianca l’inevitabile scelta morale da fare riguardo l’elefante nella stanza: come comportarsi verso i cittadini russi che non riescono a ribaltare, e nemmeno rallentare, il proprio inesorabile cammino verso il baratro autoritario e morale?

Se molti ucraini a fine febbraio e inizio marzo dell’anno scorso tifavano per le proteste a Mosca e San Pietroburgo, il sostanziale e rapido collasso delle stesse ha congelato qualsiasi sentimento di empatia reciproca. Esprimerla è divenuto sempre più impopolare, da una parte e dall’altra del confine.

Kiselyov continua a rivolgere, con un tatto così cortese da essere cinico allo stesso tempo, domande provocatorie nella testa di quasi ogni ucraino: voi di Novaja Gazeta, sineddoche di voi dissidenti russi, avete fatto tutto il possibile per fermare questa catastrofe?

«Quello che è successo il 24 febbraio 2022 è un istoricheskoye prestuplenie, un crimine iscritto nella storia, di cui ogni cittadino russo è causa e conseguenza: abbiamo distrutto il passato, e il futuro, di una nazione, anzi di due. Dopo Mariupol cosa posso pensare, Zhenja?» dice Muratov. «Però… perché stai cercando di risparmiami?», alza il tiro, veementemente, Muratov, intuendo la domanda di fondo posta da Kiselyov, e nella testa di molti ucraini da lui rappresentati nel dibattito.

«Ho letto molte di queste definizioni, dei хорошие русские (buoni russi) e dei плохие русскиe (cattivi russi), di questa ricerca ossessiva di una presunta anima russa [utile a spiegarne i crimini, lascia intendere implicitamente, ndr]. È tutta gavno, merda». Pausa. «Scusami, ho alzato i toni» conclude Muratov. «Non ti preoccupare, è difficile parlare di questi temi in modo sereno» lo rincuora Kiselyov, un suo connazionale che ha deciso di essere ucraino politicamente. «E tu scusami ancora, però», ribadisce Muratov.

La definizione di russi buoni non ha un senso logico sin dall’inizio, sebbene sia giustificata nell’uso interno ucraino – il cui fluire quotidiano di crimini di guerra e minacce, oltre alla delusione per l’atomizzazione della dissidenza russa, apre il varco all’ironia nichilista.

Si tratta, tuttavia, di una frase apparentemente neutra, ma che vorrebbe attribuire presunte qualità morali sulla base di informazioni che per definizione non è possibile conoscere, per esempio al vaglio di una dogana che ha il compito di decidere se ammettere o meno l’ingresso di un russo nell’Unione Europea. E non importa se una volta qui, dovessero rimanerci, leggendo i grandi classici russi, oppure quelli ucraini, sconosciuti in Occidente rispetto ai primi. Non è di decolonizzazione che parliamo in questo caso, ma di rimanere umani di fronte a un nemico che ogni giorno alza la posta in palio del nostro odio, rimescolando le carte di qualsiasi solidarietà dal basso, non solo fra russi e ucraini: ma anche fra ucraini stessi. La scelta del dove incanalare l’odio è inevitabilmente arbitraria, ma non può rimanere ingiustificata.

Il 19 marzo 2022, l’Accademia del cinema ucraino ha espulso dai propri ranghi Serhij Loznitsa, regista ucraino nato in Bielorussia e autore di uno dei più toccanti film sulla tragica quanto assurda quotidianità nei territori occupati dai russi sin dal 2014. Il film si chiamava Donbas, e allo scoppio del conflitto venne trasmesso in molte sale europee, anche come contraltare alla quasi decennale propaganda russa sulle presunte cause, inventante, del conflitto nell’Est del paese.

Negli stessi giorni in cui la pellicola aiutava a spiegare il Donbas agli spettatori di Berlino, Bologna, Londra e Madrid, Loznitsa veniva escluso dall’associazione ucraina per la sua «opposizione al boicottaggio dell'industria culturale russa e per altre posizioni eticamente contrarie ai principi dell'Accademia», tra cui l'aver sottolineato «la considerazione di stesso in quanto cosmopolita. Tuttavia, ora, mentre l'Ucraina lotta per difendere la sua indipendenza, il cardine della retorica di ogni ucraino dovrebbe essere la sua identità nazionale». Cosmopolita, una parola usata dal Grande Terrore stalinista per individuare i non comunisti, quindi i non cittadini.

Qualsiasi paese dello spazio post-sovietico potrà attuare qualsivoglia riforma di decomunistizzazione e desovietizzazione, come fatto da Poroshenko nel 2015, ma difficilmente riuscirà a cancellare l’homo sovieticus e i suoi schemi mentali, populisticamente travestiti ma pronti a dividere le persone in modo feroce in modi simili nel 2023 a quelli del 1933, quando venivano uccisi i comunisti ucraini che provarono a fermare l’Holodomor, il genocidio di Stalin verso il popolo ucraino. E più cancelliamo ossessivamente il nostro passato, perché ne siamo pentiti, o sentiamo di non averlo mai in fondo scelto, più ci ritroviamo in difficoltà nel presente e vediamo fosco il nostro futuro.

Dobbiamo stare attenti a cadere in processi, anche benintenzionati, di disumanizzazione, dal giudicare i russi (e persino gli ucraini da nove anni sotto loro occupazione!) in quanto categoria, oppure suddividerli in esse. I rischi sono di passare, senza accorgersene oscurati dal motore della rabbia, da una definizione politica di russo a una etnonazionale. Русские (russkije), россияны (rossijiani), buriati o ceceni, in qualsiasi modo scegliamo di volerli chiamare, si tratta comunque di persone delle quali, nel 90% dei casi, non conosciamo nulla. E probabilmente avremmo preferito non conoscerle per il resto della nostra vita, in cambio della pace e dell’integrità territoriale (e psicologica, aggiungerei dopo quasi diciotto mesi di conflitto) degli ucraini. La Storia oggi però ci spinge a un confronto, per quanto sia difficile e all’apparenza inutile. Che di certo non vorrà dire resa, pace ingiusta o altre speculazioni dei fronti non ucraini e non russi, che pretendono oggi di essere voce prevalente nel dibattito.

Persino chi combatte fra le forze armate di Kyiv - e i soldati lo capiscono meglio di chiunque altro – dichiarano come ci siano molti soldati russi che rispettano «l'ordine morale bellico», lo chiamano loro.

Con alcuni di essi è possibile parlare, dicono persino i combattenti di Azov, avere un dialogo, anche solo militare – nonostante altri usino quotidianamente torture in violazione della Convenzione di Ginevra – rendersi conto che «alcuni sono semplicemente persone intrise di propaganda, convinti che noi ucraini siamo dei loro fratelli erranti», racconta Bohdan Krutevych, prigioniero di guerra nella pseudo-repubblica di Donec’k, in seguito all’evacuazione e alla catastrofe umanitaria di Mariupol’ nell’aprile dello scorso anno.

Se riescono a parlare fra di loro persone pronte da un momento all'altro a uccidersi l'un l'altro, a maggiore ragione un tentativo dobbiamo farlo noi, russi e ucraini uniti dalla convinzione che la guerra di aggressione imperialista di Putin sia un aggressione prima di tutto al futuro di tutti e tutte noi. Certo mettendo in chiaro i propri punti di vista, e le proprie recriminazioni, se non rancori, segnati dagli eventi di questi anni: ma senza mai negare il dialogo o la legittimità a una persona di cui non si conosce il passato, né le condizioni a cui è sottoposto nel presente.

Chi è in guerra capisce meglio di chiunque altro come il nemico sia una persona in fondo simile a te, e la disumanizzazione è solamente una fra le tante strategie per adattarsi alla sopravvivenza. Chi ha la fortuna di non combattere, o perlomeno di farlo soltanto attraverso le parole, che equivale comunque a non farlo, è in dovere morale di mantenere un dialogo con chi, volente o nolente, è coinvolto nella cascata di eventi che potrebbero migliorare il futuro di entrambi i popoli. Per quanto difficile sia capirsi, ancor di più dopo un anno e mezzo di invasione su larga scala, e lo spettro di emozioni generato dai crimini quotidianamente commessi dall’esercito invasore.

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Questo articolo fa parte del dibattito promosso da Gariwo sul dialogo tra società civile ucraina e dissidenti russi. Leggi tutti gli interventi.

Foto in copertina di Алесь Усцінаў : https://www.pexels.com/it-it/f...

Andrea Braschayko

Analisi di Andrea Braschayko, giornalista freelance

24 luglio 2023

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