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La convergenza tra Russia e Azerbaigian che alimenta la guerra

di Simone Zoppellaro

Superato lo scetticismo iniziale di diversi analisti circa una sua possibile tenuta, la macchina bellica russa ha dimostrato di poter reggere e mettere in difficoltà l’ampia coalizione che si è formata a sostegno dell’Ucraina. Certo, ciò non sarebbe stato possibile senza il supporto determinante di Pechino, che non è solo politico, ma anche militare e tecnologico. «La Russia è sempre più uno Stato vassallo della Cina», scriveva pochi giorni fa Nathalie Tocci sulla Stampa. Un «paradosso per un leader [Putin] che voleva ricostituire un impero.» Ma non c’è solo Pechino, a ben guardare.

Quei droni prodotti e impiegati dall’Iran nell’attacco contro Israele sono gli stessi usati contro le città ucraine per seminare distruzione. C’è poi la Corea del Nord, che in questa guerra contro ha trovato un ruolo inaspettato che la rilancia nello scenario internazionale. Ma non solo: tanti paesi europei, Italia inclusa, continuano a violare le sanzioni per rifornire Mosca di prodotti, tecnologia e persino componenti belliche. Armi leggere e macchinari per munizioni made in Italy sono arrivati in Russia dopo l’inizio della guerra, come dimostrato da due indagini di IRPI Media. Un’ampia zona grigia fondamentale per la sopravvivenza dell’impresa bellica russa, che trova nell’Asia Centrale, nel Caucaso del Sud e nella Turchia punti di passaggio fondamentali per oltrepassare le sanzioni. E così, come scriveva pochi giorni fa Jacopo Iacoboni citando Farida Rustamova, «i ricavi di petrolio e gas della Russia nel primo trimestre 2024 ammontano a 2,93 trilioni di rubli e sono tornati al livello di inizio 2022», ovvero «2,97 trilioni di rubli».

In tutto questo, l’Azerbaigian, paese capace di mantenere buoni rapporti tanto con Mosca che con Stati Uniti e Europa, sta giocando un ruolo non trascurabile. Come ci racconta l’esperto Ilya Roubanis, membro del team editoriale di Caucasus Watch e ricercatore presso l’Istituto di relazioni internazionali di Atene (IDIS), «essere “non allineati” significa poter scegliere la piattaforma che si ritiene adatta a ogni questione in agenda. Baku agisce per Baku. Cosa fa invece Bruxelles? La nostra Commissione geopolitica concede a Baku un margine di manovra paragonabile a quello storicamente concesso ad altre nazioni produttrici di petrolio», col risultato che «la clausola sui diritti umani dell’UE in politica estera non è più un principio perseguibile». 

Non sono bastate due risoluzioni del Parlamento europeo che condannano come una «pulizia etnica» la fuga di oltre centomila armeni del Karabakh dello scorso anno a rimettere in discussione i rapporti politici ed economici fra Baku e Bruxelles. Interessi enormi, soprattutto dopo l’aggressione russa del 2022, anche e soprattutto per Roma. Come spiega ancora Roubanis: «L’Azerbaigian sta costruendo la sicurezza dell’approvvigionamento, vista la dipendenza dalle esportazioni di energia; l’Italia sta costruendo la sicurezza della domanda, viste le sanzioni alla Russia. Ora, questa partnership non è un caso isolato. I gasdotti creano interdipendenza».

In principio era il Tap, il Gasdotto Trans-Adriatico che, dopo una lunga e contestata gestazione all’inizio del millennio, è stato realizzato fra il 2016 e fine 2020, anno in cui è entrato in funzione. Risultato: oltre il 30% di tutte le esportazioni del paese caucasico – in primis proprio idrocarburi – arriva in Italia. Dopo l’Algeria, si tratta del secondo paese più importante da cui acquistiamo gas.

Eppure, con un accordo stipulato dopo l’inizio della guerra, la Russia è tornata a fornire gas russo alla società statale azera Socar per compensare le richieste crescenti dei partner europei: anche l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri Josep Borrell, rispondendo a un’interpellanza parlamentare a inizio 2023, ha detto che «la Commissione sta guardando attentamente» a questa rinnovata collaborazione. Grande è anche la preoccupazione a Roma circa la possibilità che attraverso il Tap arrivi gas russo in Italia, come ci spiega una nostra fonte all’interno del governo. Spiega Roubanis: «Baku verosimilmente sta utilizzando il gas russo per sostituire la produzione interna e vendere il proprio gas all’estero. Questo è quanto viene ampiamente ammesso». Anche senza necessariamente violare le sanzioni, aggiunge l’esperto, «il vero problema è il commercio di transito che viene facilitato attraverso il Caucaso, senza il quale l’economia di guerra russa non potrebbe funzionare».

E in futuro? Come scrive Seymur Mammadov su bne IntelliNews, «la capacità del Tap sarà ampliata per ricevere altri 1,2 miliardi di metri cubi di gas azero entro la fine del 2025. Dal 2026, l’Italia riceverà 1 bcm da questo volume». Il governo azero, naturalmente, smentisce la possibilità che il gas russo transiti attraverso questa pipeline. Ma certo è che, mentre l’Armenia guarda sempre più a Europa e Stati Uniti per smarcarsi dalla Russia, Baku sta trovando convergenze di interessi importanti con Mosca, a partire proprio dai transiti energetici e commerciali.

Il rischio concreto, dunque, è che il Tap serva oggi a nutrire non più una, ma due delle più spietate autocrazie del nostro tempo, Russia e Azerbaigian. Non guardare ai loro molteplici interessi in un paese fondamentale come l’Italia, e alla loro convergenza, significa chiudere gli occhi di fronte alle radici stessa della violenza che sempre più sta avanzando nel nostro continente.

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