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Pulizia etnica in Karabakh: l'ultimo fallimento della diplomazia europea?

di Simone Zoppellaro

Sono bastati una manciata di giorni a svuotare il Karabakh della sua popolazione autoctona armena, la cui presenza ultramillenaria, sempre maggioritaria, oggi è giunta a un capolinea. Alcune migliaia i morti stimati, oltre centomila le persone fuggite terrorizzate e già rifugiatesi in Armenia. Così muore una presenza umana, case e vite, una intera storia, in un battito di ciglia – la larga parte di loro sono fuggiti senza niente, non avendo neppure il tempo di realizzare quanto avveniva.

Stepanakert, un tempo piena di giovani e di vita, è una visione spettrale, nei video che riesco a reperire in rete (nessun giornalista straniero, va ricordato, può entrare da oltre due anni e mezzo a causa del blocco imposto dai russi). Non solo: la distruzione dei suoi monumenti è già iniziata, perché Carthago delenda est fino all’ultima pietra, all’ultima iscrizione antica. Il dittatore Aliyev, novello Erostrato, con la piena complicità di Putin ed Erdogan e il tacito assenso del cosiddetto mondo libero, porta a compimento una Totentanz che tutto travolge, inclusi centinaia di suoi giovani morti per strappare un fazzoletto di terra povero di risorse quanto ne è ricolmo l’Azerbaijan di cui è padrone. “Forse il tempo del sangue ritornerà”, scriveva Franco Fortini oltre mezzo secolo fa – ed eccolo di nuovo qui, di fronte a noi: dall’Ucraina al Caucaso, nella nostra Europa, senza più possibilità di evasione. Come sempre nella storia, quando la violenza torna a trionfare sulla ragione, sono le minoranze (ebrei, armeni, o magari gli yazidi) a pagare per prime, quasi il loro sacrificio – non mancano gli orridi apologeti, persino oggi, a ripetercelo – possa appagare l’euforia di sangue del dittatore di turno, risparmiando le vite degli altri, della maggioranza, del gregge. Grottesco e tragico insieme.

Di nuovo gli armeni, dunque. Una pulizia etnica – come ripetono ormai senza esitazione analisti e politici, soprattutto fuori dall’Italia – che prosegue quell’opera di cancellazione della presenza armena iniziata oltre cent’anni fa dai Giovani Turchi nell’Impero ottomano. No, quello di oggi non è un genocidio, almeno per il momento, ma resta il fatto che l’accerchiamento degli armeni è sempre più stringente, la loro presenza antropica – se mappata – sempre più esigua, la minaccia tutt’altro che conclusa. Causa formidabile dell’indifferenza è la lontananza, e lo capisco. Ma per me questi sono amici, conoscenti, persone il cui destino si è incrociato col mio nei mesi che ho trascorso in questo luogo splendido e doloroso. Ho visto giovani uscire da nove mesi di blocco totale reggersi appena in piedi come scheletri, una donna di centodue anni morire stremata dalla fuga non appena arrivata in Armenia. E ancora, il timore che nella lista di trecento armeni del Karabakh su cui vuole mettere le mani il regime di Baku per farne dei prigionieri politici ci siano persone straordinarie che non voglio citare, perché la prudenza non è mai troppa.

In un’Europa sempre più ripiegata su stessa, dedita alla mistica dei confini in un mondo ormai fuori controllo, non si è colta per nulla la portata di quanto avvenuto. Continuiamo – non senza una punta di razzismo – a crederci immuni, superiori, lontani da quanto avviene poco oltre le porte dell’Unione, nell’Europa come dovrebbe essere e forse un giorno sarà, estendendosi fino all’Ucraina e al Caucaso meridionale. Ma la verità è un’altra. Da Sarajevo a Tbilisi, da Kyiv a Stepanakert, la diplomazia europea degli ultimi tre decenni e oltre ha dimostrato tutta la sua incapacità di prevenire e gestire i conflitti all'interno dei suoi confini. Miliardi di euro buttati al vento e, soprattutto, massacri, pulizie etniche e persino un genocidio (Srebrenica). La credibilità dei valori fondanti dell'Unione si è ridotta a zero e, come ovvio, un nazionalismo con vocazione autoritaria è risorto persino in Europa occidentale. La cosa più allarmante, però, è come pochi capiscano la gravità della situazione, come anche la mancanza di immaginazione delle nostre leadership che ripetono gli stessi slogan di sempre, che tutti sappiamo essere falsi.

Dobbiamo ripensare il mondo e ripensare noi stessi, e dobbiamo farlo in fretta, perché il tempo a disposizione per disinnescare gli ordigni di cui sono disseminate le nostre società è davvero poco. Questa rischia di essere una nuova era dei dittatori, e non certo solo lontano da noi. La vittoria del burattino putiniano Fico in Slovacchia; il patto tra Russia e Azerbaijan in Karabakh per umiliare la diplomazia europea e punire l’Armenia della sua scelta democratica con una pulizia etnica; lo schieramento di truppe serbe finanziate da Mosca al confine con il Kosovo – solo negli ultimi giorni. Se tutto questo non è un campanello d’allarme per l'Europa, significa che la metastasi rischia di essere già troppo avanzata per intervenire.

Dopo la pulizia etnica del Karabakh – sembrano essersene accorte Francia e Germania, se non altro – salvare la piccola Armenia non è più solo una questione di altruismo, né di giustizia storica, per un genocidio negato per quasi un secolo. È una priorità della sicurezza europea, un argine nei confronti dello strapotere delle autocrazie, che ormai calpestano e irridono il diritto e la democrazia facendosi beffe di ogni umanità residua.

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