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Il silenzio degli intellettuali e la lezione di Piero Martinetti

di Amedeo Vigorelli

Piero Martinetti

Piero Martinetti

Da un po’ di tempo e da diverse campane si sentono risuonare invocazioni o rimbrotti nei riguardi degli intellettuali che, soprattutto in Italia, sembrano essere stati colpiti da una singolare afasia, in presenza di una trasformazione sociale mondiale, che ha fatto smarrire i tradizionali punti di riferimento ideali e valoriali, non solo per quanto riguarda le grandi narrazioni ideologiche di cui l’intellighenzia del secolo scorso si sentiva responsabile, ma persino a livello del cosiddetto buon senso comune, che sembra in preda ad un impazzimento generale.

Di fronte alla debolezza ormai conclamata delle liberal-democrazie occidentali a reggere il confronto con modelli autoritari o conflitti interreligiosi che sembrano riemergere da un passato arcaico, che si pensava condannato dalla modernità. Di fronte al degrado della comunicazione pubblica, delle forme di interazione sociale (famiglia, scuola, partiti, comunità ecclesiali) che si riteneva fossero sufficienti a contrastare l’imbarbarimento del linguaggio e delle idee, veicolate con forza incontrastata dalla tecnologia informatica. Di fronte al riaffiorare delle pulsioni e dei sentimenti reattivi più automatici, nel popolo ridotto a plebe, o a massa alla ricerca del capo carismatico. Di fronte alla sdoganamento del gergo politicamente scorretto e irriflessivo di termini come nemico, forestiero, diverso da noi, troppo chiassoso, un po’ sporco e maleodorante, insomma – diciamolo – negro o terrone: dove sono finite le voci rassicuranti del ceto medio riflessivo, che fine hanno fatto le vestali del politicamente corretto, gli intellettuali organici, o comunque le voci generose del dissenso, i pensosi custodi dell’ordine culturale, così solerti a firmare ogni proclama e a sostenere (almeno a parole) ogni giusta causa dei deboli e degli oppressi?

Si sono ritirati nella loro torre d’avorio, a difendere i superstiti privilegi di ceto, intenti a lodarsi o a parlarsi tra di loro, come in un eterno talk show televisivo, di fronte a un pubblico di spettatori, cui è concesso solo l'applauso finale? Siamo, insomma, di fronte a una nuova trahison des clercs, di segno contrario a quella denunciata da Julien Benda giusto un secolo fa? Allora, a venir considerato come tradimento era l’engagément politico dell’intellettuale, la sua volontà di entrare nell’agone politico, per esercitare un potere di persuasione sulla massa incolta, in una gara (persa in partenza), con i meglio attrezzati demagoghi e attivisti politici (gli uomini del fare), che avrebbero finito per porre la loro scienza e competenza al servizio di più mondani interessi materiali. Dopo la tragedia (la fine dell’Europa?) delle due guerre mondiali, la valutazione delle responsabilità degli intellettuali è radicalmente mutata di segno, e l’impegno, la capacità di compromettersi e di rischiare, di scegliere la parte giusta, di farsi compagni di strada del cammino delle masse nel processo progressivo della storia, sono stati valutati come elementi positivi e in certa misura doverosi; mentre la solitudine dello studioso, la vocazione contemplativa e disinteressata del chierico, sono stati additati a colpevole negligenza, a conservatorismo, a elitismo, incompatibile con l’immancabile trionfo dello spirito democratico su quello aristocratico, conservatore, reazionario dell’intellettuale, in quanto ceto separato e intrinsecamente impolitico (poche, ma non assenti del tutto le voci in controtendenza, spesso fraintese come anime belle).

Ebbene, a rischio di venire accusato a mia volta di tradimento, vorrei spezzare una lancia in favore proprio del vecchio tipo di intellettuale europeo primo-novecentesco, prendendo a modello il dimenticato Piero Martinetti. Dei tre maggiori filosofi idealisti del nostro Novecento (Croce, Martinetti, Gentile) il secondo è stato spesso accusato di incarnare un modello ottocentesco di chierico, sordo e silente di fronte ai clamori e alla disfide epocali tra quelle che Croce chiamava le religioni opposte, ma cooperanti al farsi contemporaneo della storia, della libertà (liberalismo), della uguaglianza (socialismo e democrazia), della forza e della potenza (fascismo e comunismo). A nessuna corrente politica e ideologica Martinetti volle appartenere, a nessuna chiesa o conventicola volle mai aderire, chiuso, all’apparenza, ad ogni coinvolgimento col mondo, teso verso una meta ideale trascendente (ultimo neoplatonico, amava definirsi egli stesso, con autoironia). Poco disposto perfino al confronto con i suoi pari accademici (non era fiero di appartenere a quel ceto professionale, e tenne sempre a distinguere la propria filosofia, da quelle più corrive col tempo e con le mode culturali).

Eppure, quando venne il momento di dire un no senza esitazioni, di fonte alle imposizioni totalitarie alla libertà di insegnamento, Martinetti stupì il mondo chiuso delle Università e delle Accademie scientifiche, rifiutando (solo tra i filosofi e in buona ma scarsa compagnia tra i docenti universitari) di piegarsi alla imposizione del giuramento di fedeltà al fascismo, esteso nel 1931 anche ai professori universitari, preferendo rinunciare alla cattedra che alla propria libertà di coscienza. Con parole che meriterebbero di venire incise nel marmo, egli così rispondeva alle pressioni che l’allora Ministro della Educazione, Balbino Giuliano, uomo di Gentile, aveva cercato di esercitare nei suoi confronti, suggerendogli un atto di Nicodemismo:

"Ho sempre diretto la mia attività filosofica secondo le esigenze della mia coscienza, e non ho mai preso in considerazione, neppure per un momento, la possibilità di subordinare queste esigenze a direttive di qualsivoglia altro genere. Così ho sempre insegnato che la sola luce, la sola direzione ed anche il solo conforto che l’uomo può avere nella vita è la propria coscienza; e che il subordinarla a qualsiasi altra considerazione, per quanto elevata essa sia, è un sacrilegio. Ora col giuramento che mi è richiesto io verrei a smentire queste mie convinzioni ed a smentire con esse tutta la mia vita; l’E. V. riconoscerà che questo non è possibile".

Il suo non era un gesto di ribellione all’autorità dello Stato (anche se venne subito interpretato come una dichiarazione di antifascismo), ma un atto religioso, un rifiuto di subordinare la propria coscienza ad una autorità superiore di qualsiasi genere, venendo così a smentire nel fatto quel magistero di libertà e coerenza morale cui aveva improntato tutto il proprio insegnamento. Un gesto socratico, potremmo dire, un non possumus dettato non dalle circostanze esteriori, ma dal demone interiore.

Ma tutto ciò non è stato senza una lunga preparazione e un quotidiano esercizio. Nei suoi corsi universitari d’anteguerra, Martinetti aveva scelto come punti di riferimento etico-politici Fichte e Schopenhauer, assumendo l’agire a misura del valore della persona (secondo l’adagio moderno esse sequitur operari, che rovesciava l’ideale antico dell’operari sequitur esse). Ma, di fronte alle degenerazioni nazionalistiche e statolatriche di quella filosofia tedesca, in cui si era formato; nell’evidenza della riduzione dell’agire a una forma di attivismo e della filosofia a un praticismo utilitario (di cui il fascismo era la più evidente incarnazione etico-politica), decise di rivolgersi piuttosto al modello dell’etica di Spinoza. Alla pretesa di voler attuare il bene (concetto relativo), l’ebreo apolide sostituiva quella di combattere il male, facendo leva sulla forza delle passioni gioiose (amore) contro quelle tristi (odio); invertendo la direzione delle risorse vitali dell’uomo, dall’egoismo risentito e invidioso all’altruismo generoso e gratuito, la cui espressione religiosa era l’amor dei intellectualis: il rispecchiarsi dell’amore divino nelle singole menti, che ne partecipano in modo finito e parziale, ma non perciò illusorio e apparente. In tal modo, l’essere ritrovava il proprio primato e la propria forza naturale sull’agire volontario, e l’azione ritrovava la sua finalità propria: quella di rivelare ciò che siamo, non quello che crediamo di essere. In tal modo la persona trovava il proprio posto e la propria insostituibile parte responsabile, di fronte al tutto che la ingloba.

Nel clima dell’Italia clerico-fascista e dell’Europa infatuata dai nuovi miti della potenza e della forza, la lezione di Martinetti parve inattuale e fu presto dimenticata, anche dai suoi allievi, che ne prolungarono l’insegnamento universitario. Ma il valore morale degli uomini liberi ha la forza di resistere al tempo e di riproporsi, come esempio, su un terreno universale. Una tardiva resipiscenza è stata ad esempio la recente decisione del Dipartimento di filosofia dell’Università Statale di Milano di intitolarsi al nome di Piero Martinetti, sia come modello di severità degli studi, sia come esempio di coraggio civile. Ma forse è venuto il momento di ricordarlo anche per l’intera città di Milano, che a Martinetti ha intitolato una via abbastanza periferica nell’immediato dopoguerra, ma che da quel momento in poi si è quasi del tutto dimenticata di questo suo cittadino d’elezione (era di origine piemontese, ma non volle mai trasferirsi da Milano a Torino, anche quando gliene fu data la possibilità). Certamente, Martinetti non fu un Giusto, nel senso che non salvò nessuna vita, a rischio della propria. Ma lo fu, in un significato forse più alto: con il suo coraggio civile e la sua inflessibilità, salvò non solo la propria libertà e dignità, ma anche la nostra, di noi trascurabili epigoni, che possiamo esercitare liberamente e a testa alta il nostro magistero scientifico e l’onesto mestiere di filosofo, anche grazie al suo gesto disinteressato e alla sua fede nel significato religioso (non in senso confessionale) del filosofare.

Amedeo Vigorelli

Analisi di Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale Unimi

21 giugno 2018

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