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Come si negozia con i dittatori?

di Anna Zafesova

Mentre un'altra crisi alle frontiere – dopo quella creata artificialmente da Aleksandr Lukashenko, che ha scagliato migranti mediorientali sul filo spinato che divide la Bielorussia dalla Polonia e dalla Lituania – è stata apparentemente processata dalla diplomazia, e Joe Biden insieme a Vladimir Putin hanno affidato ai rispettivi team di consiglieri il negoziato sulla de-escalation al confine tra Russia e Ucraina, vale la pena riflettere sul metodo con cui questi due focolai di tensione sono stati creati e gestiti. 

Con tutte le differenze tra i due personaggi, Lukashenko e Putin hanno anche molto in comune: sono entrambi autocrati con problemi di consenso interno e isolamento esterno, architetti di due regimi ai quali loro stessi hanno tolto valvole di sicurezza, meccanismi di successione e la manopola della retromarcia.

Sia la crisi dei migranti trasportati al confine bielorusso con l'Unione Europea che la concentrazione senza precedenti di truppe russe alle frontiere ucraine sono due escalation artificiali, “manmade”, volute e orchestrate da Minsk e Mosca, tutt'altro che casuali e accidentali. Entrambe avevano come obiettivo ricattare e mettere sotto pressione Paesi limitrofi considerati “nemici”: la Polonia e la Lituania che danno aiuto e asilo agli oppositori bielorussi, e l'Ucraina, ex repubblica sovietica che da Stato indipendente ha abbandonato l'orbita russa scegliendo la rotta verso l'Unione Europea e la Nato. Entrambe hanno visto un utilizzo della coercizione/potenza militare che sembrava uscito da altri tempi e geografie, rispetto all'Europa del XXI secolo. Ed entrambe avevano lo stesso tipo di motivazione e innesco nei confronti dell'Occidente: “Risolviamo insieme il problema che vi ho creato”, come l'ha riassunto un critico di Lukashenko, ma vale anche per Putin.

Nel suo ricorso alla terminologia della propaganda sovietica, il Cremlino ama molto denunciare “provocazioni” occidentali: Putin ha appena bollato come tale le accuse di voler invadere l'Ucraina, come se concentrare 100 mila soldati e uno schieramento senza precedenti di armamenti e mezzi ai suoi confini non fosse una “provocazione” a sua volta. Diversi analisti – europei, americani, ucraini e perfino russi – hanno dubitato che il Mosca stesse davvero progettando un'invasione, che non solo avrebbe scatenato la più devastante guerra in Europa dal 1945, ma sarebbe stata ben oltre le capacità belliche, economiche, politiche e diplomatiche della Russia. Lo stesso Biden ha ammesso di non potere sapere per certo se i piani di guerra russi fossero reali, ma ha preferito non correre rischi e aprire a un negoziato con Putin. Una logica assolutamente corretta: se non si fosse trattato soltanto di un bluff ignorarlo sarebbe stato un errore madornale, e se fosse stato un bluff mostrare a tutto il mondo di snobbarlo avrebbe potuto spingere il Cremlino, offeso, a trasformare il gioco in realtà. Dunque, meglio venire incontro a una richiesta di negoziato, seppure espressa in forma di provocazione militare, che rischiare una guerra.

Un ragionamento da politico democratico, così come quello che ha spinto Angela Merkel negli ultimi giorni del suo cancellierato a telefonare ad Aleksandr Lukashenko: nella visione europea, snobbarlo con uno sdegnato silenzio rischiando una strage umanitaria di profughi congelati nelle foreste bielorusse era impensabile. La cancelliera è stata criticata per questa telefonata, che la propaganda di Minsk ha immediatamente presentato come una resa dell'Europa e una disponibilità a riconoscere almeno de-facto la presidenza di Lukashenko, nonostante pare che Merkel gli si fosse rivolta come “signore” e non “presidente”, a sottolineare che resta un leader illegittimo. Entrambi, Lukashenko e Putin, non hanno ottenuto praticamente nulla dai loro ricatti: Merkel e Biden sono stati molto duri nel ribadire che non ci sarebbero state concessioni di alcun genere, e che invece di alleviare le sanzioni era probabile che l'Occidente ne avrebbe imposte di nuove. Eppure entrambi, Lukashenko e Putin, hanno considerato già il fatto che i leader di Berlino e Washington avessero accettato, seppure a malavoglia, di trattare con loro, come una vittoria.

Un paradosso solo fino a un certo punto, se si considerano i meccanismi mentali dei sistemi autoritari, che considerano il negoziato un segno di debolezza. Che vedono lo sfoggio di forza militare e le “red lines” da porre a Paesi sovrani come il privilegio dei forti (quando non solo loro nella posizione dei deboli, ovviamente). Che non hanno alcuna remora – anche perché hanno messo il bavaglio all'opinione pubblica interna e censurano quella internazionale – a violare diritti umani e principi del diritto internazionale. E che hanno soprattutto una componente irrazionale molto più cospicua nella costruzione del loro consenso, per cui ottenere un riconoscimento come una telefonata o una videoconferenza con un leader internazionale può venire sbandierato come trionfo indipendentemente dal pretesto grazie al quale questo “segno di considerazione” è stato raggiunto. In attesa di vedere se l'escalation militare al confine ucraino verrà interrotta, come è già stata interrotta l'importazione di migranti in Bielorussia, nei manuali della diplomazia occidentale andrebbe introdotto un capitolo sui negoziati con le dittature.

Anna Zafesova

Analisi di Anna Zafesova, giornalista, analista e USSR watcher

9 dicembre 2021

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